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giovedì 19 luglio 2007

Dogmaclastìa

Ovvero:

"Le regole sono come le ginocchia degli attaccanti avversari: esistono solo per essere infrante." (Hans-Peter Briegel)

In ambito gastronomico-culinario (tra tutti i possibili contesti di discussione, quello che decisamente genera i fomenti più astiosi) esistono una serie di precetti che - secondo il senso comune - NON vanno mai violati, pena le occhiate di disapprovazione dei vostri ospiti.

Tali occhiatacce sono generalmente accompagnate da una sequela di balloon da fumetto che recitano cose del tipo:

  • "Ai piatti di pesce va abbinato SOLO il vino bianco!"
  • "ll succo di limone va aggiunto POCO PRIMA di servire il piatto, sennò si ossida!"
  • "Nel soffritto non si usa MAI la cipolla, bensì lo scalogno!"
  • "L'aglio va lasciato SEMPRE incamiciato!"
  • "Il dado da brodo è ASSOLUTAMENTE da evitare!"
  • "Il sale grosso deve essere RIGOROSAMENTE integrale!"
  • "L'olio extravergine d'oliva DEVE NECESSARIAMENTE essere di prima spremitura a freddo e possibilmente lavorato in un frantoio del neolitico!"
  • "GIAMMAI condire funghi e pesce con il formaggio!"
e altre minchiate d'ordinanza.

Ora, io che di cucina ne capisco poco meno che di fisica quantistica ("...mi scusi un attimo, signor Planck, ma in questo momento non posso darle troppa attenzione: l'aspetto domani sera in Via Panisperna per quel convivio cui accennava Niels...") mi sono sempre curato poco di tali dogmi e ho sempre anteposto la curiosità e il gusto personale a qualsiasi tipo di precetto talebano.

Ecco perchè mi è spesso capitato di proporre, in cucina, l'equivalente culinario di un bestemmione a piena gola sotto il baldacchino del Bernini in San Pietro, un rutto fragoroso al culmine del pathos durante la rappresentazione - al Piccolo! - dell'Otellas di Nekrosius, un romanzo di Baricco in libreria, un'auto bianca e azzurra targata L'Aquila e parcheggiata davanti al Roma Club di Testaccio, oppure (gasp!) pagare anzichè essere pagati per andare a vedere un film di Muccino.

Alcune di queste blasfemìe, lungi dall'essermi state ispirate dall'oppio o da una cassoeula consumata a tarda sera, sono il frutto di sporadici e temerari tentativi di provare qualcosa di nuovo nelle rare volte in cui mi è capitato di andare a cena fuori.

Ed è proprio durante una di queste escursioni extramurarie che mi sono imbattuto nella Trattoria del Mare, ad Anzio (RM), un piccolo locale apparentemente senza pretese che giace spaparanzato sul molo del porto commerciale a pochi metri dall'imbarco dei traghetti per Ponza.

La trattoria è gestita da alcuni giovani anziani, e sulle prime non pare proporre nulla di particolarmente innovativo: solito trionfo di antipasti di mare (almeno 15 tipi diversi in un'unica voce sul conto), soliti primi ben curati e secondi altrettanto.

Dei vini non so dire: di lì a poco avrei dovuto guidare su strade parzialmente ignote, e non ho potuto apprezzare - pertanto - la possibilità di tracannare il mio solito litro e mezzo di Gotto d'Oro, da cui il mio disinteresse.

Orbene è stato con spavalderia mista ad un certo grado di ingenuità che ho osato ordinare degli spaghetti ai moscardini. La cameriera mi sorprende chiedendomi: "Ce lo vuole il formaggio sopra? Perchè sa, noi siamo soliti aggiungerci un po' di pecorino romano...".

"Come no!" è stata la mia poco convinta risposta, al punto che la cameriera mi richiede conferma, che giunge alfine positiva e un po' più decisa.

Questo il preambolo.

All'arrivo del piatto, in realtà una vera e propria còfana larga almeno quaranta centimetri e rorida di spaghetti e condimento, mio figlio (due anni e mezzo e nel pieno di una fase di avversione ferina nei confronti di tutto ciò che ha natura casearia) prorompe - a narici tappate - in un candido "Ghe bùzza!".

In effetti l'odore di pecorino misto al sugo di moscardini risulta abbastanza penetrante e, in qualche modo, estremamente stuzzicante all'appetito.

Fatto sta che la còfana si svuota nel giro di pochissimi minuti con somma soddisfazione mia, di mia moglie e di mio figlio, che può dunque riaprire all'aria le sue tenere narici.

Chiedo lumi alla cameriera che ci ha servito e scopro che il cuoco è uso aggiungere il pecorino in modica quantità (un cucchiaio) solo all'atto della rimestatura della pasta con il condimento.

Terminata la cena, gironzolo un po' per agevolare la digestione (ma sarei dovuto tornare a Roma a piedi per ottenere un qualche beneficio epatico) e mi accingo al rientro con in testa il buzzo di scrivere un post su questo evento.

Il conto è risultato onesto, soprattutto tenendo conto della grandeur assiro-babilonese delle porzioni, il servizio preciso e simpatico e la location suggestiva, con le barche ormeggiate a fare da quinta ai tavolini all'aperto.

Unico neo, la frequentazione media a base di cùmenda del litorale, culminata con l'arrivo di un fantomatico e totipotente Ingegnere (no, non io!) che parcheggia praticamente all'interno del locale come fosse il suo garage privato.

Tornando al piatto, questo andrebbe preparato - ad intuito - facendo saltare in padella due spicchi d'aglio insieme ai moscardini puliti e lavati.

Quando i moscardini cominciano a cambiare colore e a restringersi un poco, andrebbe aggiunto un mezzo bicchiere di vino bianco (ma anche la Sprite o il barbera d'Asti possono andar bene visto l'andazzo del post) e, dopo qualche minuto necessario a far cagliare il tutto, anche una goccia di concentrato di pomodoro, pepe nero macinato ed una modica quantità di pachino sminuzzati.

A parte (ma va?) cuocere la pasta, preferibilmente spaghettoni dal calibro delle gomene da diporto, da scolare al dente.

Quando pasta e condimento saranno pronti, unirli insieme ad un cucchiaio generoso di pecorino romano (che poi fanno in Sardegna, ma è un'altra storia) indi far saltare l'amalgama in padella con quel magnifico movimento di polso che fa tanto chèf d'alta scuola, ovvero onanista incallito ed un po' triste.

I pavidi e i timorati di dio possono ricoprire il piatto con un po' di prezzemolo fresco sminuzzato.

Se sentite puzza di stallatico allora vuol dire che avete esagerato col pecorino: pentitevene e recitate tre o quattrocento ave maria. Il piatto sarà ormai compromesso, ma almeno la vostra anima potrà aspirare ad un barlume di salvezza.

Come accompagnamento ci vedrei bene un bel bianco appena liquoroso tipo un Rapitalà (per l'ennesima volta) che ben si sposa con gli afrori caldi e inconsueti della preparazione.

Il piatto è consigliato a tutti tranne che a mio figlio (per ora: ne riparliamo fra un paio d'anni!).

Hai capito, appapà? :)

Da preparare ascoltando:

venerdì 8 giugno 2007

'bbrasciòla di cavallo al zùco

Foggia è una città ben strana.

A Foggia molte cose perdono il loro vero nome per acquisirne un altro che poi, per consuetudine, si sostituisce al primo nell'immaginario collettivo (e spesso ignaro) sino a diventare più vero del vero.

Ad esempio, da tempo immemore (cioè da quando io ho facoltà di ricordare) a Foggia esiste una Piazza Libanese. Che a me, già da régazzino, mi pareva un nome inusuale: quando mai s'è vista una piazza aggettivata? Libanese, poi.

E perchè non Etiope o Tagìka?

Ma quando la sentivo appellare così financo da due solide e concrete casalinghe quali mia madre e mia nonna materna, beh, allora mi rassegnavo ai miei dubbi adolescenziali.

Poi all'improvviso ho scoperto quali fossero gli altri significati della parola libanese, in seguito quale fosse l'attività clandestina per cui la piazza omonima era famosa, e quindi - finalmente! - il perchè di quei capannelli di 'ggiuv'n uagghiùn' [0] assiepati nottetempo in Parco Volontari della Pace.

Più che ingenuo sono duro di comprendonio, lo ammetto.

Esistono anche altri casi eclatanti di perdite d'identità anagrafica, riferite solitamente alla toponomastica degli esercizi commerciali.

Il chiosco La ghiacciaia, sebbene così registrato alla camera di commercio, in realtà non è mai esistito in quanto tale: il suo nome originario è da sempre soppiantato nella memoria dei foggiani dal più familiare 'a cantìn' d' P'ppùzz' [1], universalmente nota a causa dei tappi di birra Raffo incastrati dagli avventori con inusitata perizia nell'asfalto innanzi all'ingresso, e per i rùtt' [2], sgàrrùtt' [2bis] e quàtt' chitàmmùrt [2ter] che prorompono dagli avventori stessi ad ogni minima occasione, anche la più inutile.

Poco distante, nascosto in una viuzza a senso unico di fianco all'Accademia di Belle Arti e non molto lontano dalla vecchia questura, giace un altro esempio caratteristico di tali identità commerciali multiformi: la taverna / pizzeria La grotta azzurra, nota ai foggiani - e dunque al mondo intero - con l'affettuoso appellativo di 'u 'nz'vùs [3].

Ed è proprio dall'Inzivoso [4] che ho potuto riassaporare una delle massime espressioni di quel caratteristico piatto foggiano della domenica di festa che è, per l'appunto, la 'bbrasciòla di cavallo al zùco.

Neanche a farlo apposta, a Foggia la 'bbrasciòla (braciola) non è quello che sembra.

Uno dice "braciola!" a Milano, e si vede servire un bel pezzo di carne alta un dito, ancora attaccata all'osso e cotta alla brace (da cui il nome).

Uno dice "braciola!" a Roma, e uguale.

A Napoli, idem.

A Foggia no: a Foggia la braciola è l'involtino di carne cotta nel sugo. Tenuta insieme a volte da un doppio filo di cotone, a volte da stuzzicadenti o spiedini di metallo, e comunque farcita d'aglio, prezzemolo, formaggio e pepe. Presso i più nobbbili, anche di prosciutto cotto e omelette (la frittatina, certo!).

Per prepararla non occorre particolare perizia ma gli ingredienti giusti, quelli sì.

Nell'ordine:

  • agghij' (aglio)
  • ogghij' (olio)
  • sàrz' d'pùmmadòr' (salsa di pomodoro)
  • p'trùsìn' (prezzemolo)
  • p'cùrin' (formaggio saporito)
  • pèp' nìr' (pepe nero macinato)
  • carn' d'cavall' p'ì 'bbrasciòl' (fettine di carne di cavallo tagliate a medio spessore)
  • carna gràss' p'anzapurì 'u zùg' (carne meno pregiata, tipo maiale o muscolo, tagliata a pezzi grossi, utile per dare un fondo più robusto al sugo)
Parte dell'aglio va tritata insieme al prezzemolo, quindi mischiata al formaggio grattugiato ed al pepe e utilizzata per farcire le fettine di carne, disponendo il composto ad uno degli estremi della fettina, in modo che arrovogliando quest'ultima su sè stessa e cominciando proprio da tale estremo, la farcitura arrivi a trovarsi infine al centro della braciola.

Indi si procede alla chiusura dell'opera utilizzando il mezzo più consono (cotone, stuzzicadenti o spiedini). Mia nonna, per inciso, prediligeva il cotone. L'Inzivoso, invece, gli stuzzicadenti di legno, più facili da riciclare e quindi tendenzialmente meno onerosi.

Nel frattempo, in una pentola abbastanza alta, si sarà fatto soffriggere l'aglio in olio sufficientemente abbondante, onde aggiungere prima i pezzi di carne d'accompagnamento e quindi le braciole.

Non appena la carne comincia a lasciare tracce abbrustolite sul fondo della pentola, si abbassa la fiamma e si attende un minuto che la temperatura dell'olio sia scesa prima di versare la salsa di pomodoro: se quest'ultima è fatta in casa clandestinamente, tanto meglio.

Si ravviva quindi la fiamma, si sala il tutto e ci si aggiunge qualche gambo di prezzemolo tanto per gradire.

La cottura deve essere lunga e, viene da sé, la fiamma non troppo alta.

Quando il sugo raggiunge la consistenza del purè di patate, allora è indizio che la cottura è ultimata. Se si attacca un po' alla pentola, male non fa.

Le braciole vanno servite per prime, immerse in un tripudio di salsa, quindi la carne d'accompagnamento, se la vostra panza conserva ancora un qualche anfratto libero.

Anche perché per gli avventori de l'Inzivoso il piatto in questione non è mai la prima portata, ma spesso segue a ruota un'altra delle famose delicatessen della casa, ovvero la pizza a bordo alto farcito di ricotta e salsiccia (il bordo!).

Per molti esseri umani, l'accoppiata è letale.

Ormai sono anni che non vivo più in pianta stabile a Foggia. Quando ci torno, sporadicamente, sono sempre troppo impegnato a salutare amici e parenti - quei pochi - per potermi dedicare ad una sana devastazione gastrointestinale come quando ero fanciullo.

Voci preoccupate che hanno raggiunto noi foggiani emigrati all'estero ci dicono che 'u 'nz'vùs' sia chiuso da un po', a causa di problemi familiari riscontrati dal signor Vittorio (il titolare del locale nonchè dell'appellativo di Inzivoso) e non ancora risolti.

Alcuni, invece, sostengono che il locale sia stato chiuso dai NAS, che durante un'ispezione di controllo pare abbiano visto uscire dalla cucina una fila di verruche in ciàvatte.

Quale che sia la verità, si tratta comunque di una perdita incommensurabile per la gastronomia di un certo livello (il più basso).

Una prece.

Da preparare ascoltando:



Note del Traduttore:

[0] Scansafatiche
[1] "La cantina di Giuseppe"
[2] Rutti
[2bis] Rutti fragorosi
[2ter] Bestemmie e contumelie indirizzate ai familiari morti del destinatario
[3] "Il lurido"
[4] "Il lurido", secondo la dizione adottata dal foggiano verace che cerca inutilmente di parlare in itaGliano