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mercoledì 30 maggio 2007

Calderone di pesce bentonico

Sia lode alla chef Claire Nouvian per aver finalmente svecchiato gli ambienti della cucina internazionale proponendo una variante eccezionalmente ricca e articolata dell'arcinota zuppa di pesce (o cacciucco o bouillabaisse o ciambotta che dir si voglia).

E allora: via i gamberetti, salutate gli scampi, dite addio al palombo e all'umile grongo! Al diavolo le teste di triglia e quelle di cefalo, i merluzzetti, le mazzancolle e il fetentissimo scorfano...

Vi basteranno, semplicemente, delle quantità variabili di:

Come base, a parte la salsa di pomodoro fresco, è necessario un discreto quantitativo di brodo primordiale (privo di glutammato e alghe azzurre, mi raccomando).

Nel pentolone ove avrete preparato il sugo, lasciate macerare gli ingredienti per un periodo compreso tra i tre e i cinque miliardi di anni, mescolando energicamente allo scadere di ogni era geologica.

Mon dieu: les jeux sont fait!

Se il vostro pisciaiuolo di fiducia non dovesse riconoscere 'a voce' alcuni degli ingredienti su menzionati, potete sempre pensare di indicarglieli nell'ottimo specchietto riepilogativo che trovate qui di seguito:


NdA: Nel caso in cui risultiate tra quei pochi sfortunati che non digeriscono la Winteria Telescopa, allora potete sostituirla con l'ottima (ed economica) Mertensia Ovum, senza per questo rovinare la fine palatalità del piatto.

Da preparare ascoltando: Fishbone - Give a Monkey a Brain And He'll Swear He's the Center of the Universe (1993)

lunedì 28 maggio 2007

White Ragoo

Lo ammetto, il titolo è pretenzioso e fuorviante.

Primo, perchè è in inglese (lift yer handz all ye who know how to properly read - not daring 2 say 'understand' - some pidgin-Englischer words, aye! Me, I'm not).

Poi, perchè "ragù" (o meglio: "raù") si scrive così e non colì.

Infine, perchè non è un ragù nel senso vero e proprio del termine, visto che non ci vogliono 12 (dodici!) ore per la sua preparazione e non servono 852 (tanti!) tipi di carne diversa.

Basta un po' di sarciccia, di quella a punta di coltello o macinata grossa, non piccante e priva di semi di finocchio, come si usa a Mosca.

Astenersi luganeghe.

La sauciccia (o LE saucicce, a seconda di quanta ce ne si vuole mettere dentro) va spellata, spiaccicata con una forchetta e restituita per quanto possibile alla sua originaria costituzione 'a pezzettoni'.

Nel frattempo avrete avuto cura di soffriggere in poco olio un cipollotto sminuzzato (no: non ho detto scalogno) insieme ad un piccolo rametto di rosmarino fresco.

Contemporaneamente, lavate tre o quattro foglie di salvia e altrettante di alloro.

La prima, di solito, me la procuro in uno smart shop in via Oderisi da Gubbio (RM), anche se è di una varietà meno adatta alla cucina.

Il secondo, a parte prelevarlo dalla ormai smunta e rinsecchita corona con cui mi cinsi la testa (di minchia) aprés la laureà, lo trovo nel parcheggio del mio posto di lavoro o incastrato nel filtro dell'aria della mia macilenta Ford Orion bordeaux del '91, Khorakhanè edition.

Il gusto di quest'ultimo può rivelarsi un po' - come dire - pesantuccio: colpa del piombo tetraetile, forse.

Fregatevene, e prima che il soffritto sia solo un vago ricordo abbrustolito, aggiungete la sàvizicchia triturata e una gollata generosa di tavernello bianco o equivalenti in cartone.

Quando la salamella è a metà cottura (solo dio saprebbe come dedurlo: per interrogarlo, provate a chiamare uno di questi numeri e tenetemi aggiornato) si aggiunge al pasticcio un rametto di rosmarino per ciascun commensale, poi la salvia e quindi l'alloro.

Ho dimenticato di dirvi l'ovvio: e cioè, cuocete la pasta (media e contorta, tipo fusilli, se è fresca meglio ancora) , sinnò co' che v'o magnate 'sto schifo?

Se la saucisson è di buona qualità, manterrà un colorito chiaro senza sconfinare nel rosa o peggio nel fucsia fosforescente (come solo poche salsicce sanno fare, tipo quelle spacciate al TODIS).

La pasta, scolata, va mantecata rimestata nella pentola del soffritto e quindi ricoperta con una dose generosa di pecorino grattugiato.

Se proprio volete fare la figura dei gran signori, utilizzate i rametti soffritti di rosmarino (ricordate? uno per commensale, 'tacci loro!) per guarnire i piatti, badando a portarli a tavola con il dito pollice mollemente adagiato nel contenuto del piatto stesso ed il mignolo sollevato che neanche all'acme di una crisi da priapismo.

Al termine del pasto, e solo allora!, potrete dire a loro (i commensali) dove avete preso l'alloro e quanto gli verrà a costare - all'ora - il consulto di un buon nefrologo.

Spero abbiate avuto cura di abbinare al piatto un buon antigelo o al massimo il medesimo tavernello del soffritto, ché non si butta via niente.

Qualora necessitiate di un ulteriore ausilio alla pennica post-prandiale, potete abbinare al piatto qui descritto una lettura in lingua originale del mirabile Trattato sull'Astrolabio di Geoffrey Chaucer.

Da prepararsi ascoltando:

Craxi vostri.

Ha dei probblemi...


...tipo: dove trovare delle pappardelle all'altezza?

giovedì 24 maggio 2007

Hugo

(c) Aline Smithson

La sua storia è questa.

mercoledì 23 maggio 2007

φέτα ε τσυκιηε

Questa sera si disputerà in quel di Atene la finale di cèmpsionlìg (pronunciata in accordo alle regole della fonetica galeazziana): ma questo blog non parla di arte pedatoria, né tampoco di calcio moderno.

Però bisogna constatare che non v'è occasione migliore di un evento di tale por[ct]ata, per decidersi a cucinare un piatto greco (ma ROTFL!) la cui esistenza mi è stata svelata da un bergamasco biondo y tinto, presunto bisex e fan di Madonna (via quel 'presunto'!), con cui coabitavo a Milano, in BözenStraße 1.

In verità in verità vi dico che il tipo (ciao Giulio!) era solito preparare la pietanza in un minuscolo microonde (bontà sua): nel ripetermi qui a Roma, in assenza del suddetto microonde, ho scoperto che un comune forno a gas è più che sufficiente, financo quella fetecchia che ho in casa.

Ordunque, come si capisce facilmente dal titolo del post, per incominciare l'avventura abbisognate di:

  1. τσυκιηε
  2. φέτα
  3. un forno
  4. una teglia
mentre i più fantasiosi di voi possono optare per l'aggiunta di una spezia a scelta tra:
  • pepe nero
  • noce moscata
Le τσυκιηε vanno lavate, circoncise in modo da eliminare il prepuzio e il postpuzio alle due estremità, e tagliate in pezzi piccoli, di mezzo centimetro di spessore e dalla forma di quarto di circonferenza.

Se la trigonometria non fa per voi, beh, allora tagliatele come più vi aggrada, anche a forma di patatine playstation™, nel qual caso potreste trovare preferibile usare un bulino o un succhiello anzichè un comune machete da cucina.

Avete affettato le τσυκιηε? Bene, mettetele temporaneamente da parte (detto con voce alla Lucarelli e con le mani congiunte a formare l'immagine di un ragnetto che cammina su uno specchio).

Procedete in modo analogo con la φέτα, ovviamente senza lavarla, pur sapendo che non è pastorizzata (a meno che non siate degli sporchi igienisti: nel quel caso, FUORI DI QUI!).

Sminuzzatela in cubetti della dimensione di una zolletta di zucchero e unitela alle τσυκιηε preparate in precedenza.

Ammischiate il tutto come streghe che rimestano il calderone del sabba, indi depositate il risultato nella teglia che avrete poi cura di informare del fatto che state per infornarla.

Paura, eh? (sempre con la voce del Lucarelli di cui sopra)

Al solito, non preoccupatevi troppo della temperatura del forno, a meno che ad un certo punto non sentiate provenire dalla vostra cucina uno strano odore di plasma gassoso.

Ora, forse non tutti sanno che (cfr. "La Settimana Enigmistica") la φέτα ha un punto di fusione prossimo a quello dell'acciaio temperato misto all'amianto: a tal proposito si pensi che i pompieri di Θεσσαλονίκη sono soliti ungersi il corpo con essa prima di addentrarsi nel ventre degli edifici in fiamme (con il risultato che i pompieri si ustionano lo stesso, mentre gli inquilini rimasti intrappolati trovano il coraggio di fuggire via all'istante a causa del fetore e non devono essere portati in salvo singolarmente).

Perciò, non vi aspettate che la φέτα si sciolga per giudicare finalmente ultimata la cottura: diciamo che la scomparsa delle τσυκιηε - sostituite da un composto nerastro simile alla grafite - è indizio che siete andati un tantinello oltre.

Ovviamente, dovete avere la pazienza e la perseveranza di rimestare ogni tanto l'amalgama con una cucchiara di legno.

Potete ritenervi soddisfatti quando la φέτα si è ben rosolata sino a divenire superficialmente arancione (anche se non ripete un mantra Hare Krishna, va bene lo stesso) e le τσυκιηε sono finalmente rattrappite senza essersi disidratate.

Estraete la teglia dal forno tramite una pinza da fonderia e ricoprite l'ammasso caustico con una delle due spezie elencate un po' più su.

Eccheqquà!

Avrete notato l'assenza di sale aggiunto: ebbene, così come dall'unione tra quel mostro di Klaus Kinski e Ruth Brigitte Tocki (il cui aspetto ignoro, ma non faccio fatica ad accomunarla ad un angelo) è venuta fuori quella topona di Nastassja, anche dalla commistione di un alimento insipido, quali sono le τσυκιηε, e di un alimento sapidissimo qual è la φέτα, può venir fuori qualcosa di splendidamente saporito.

Se proprio non avete della retsina potete berci sopra un Corvo bianco (ma badate bene che sia freddo, eh!). In alternativa, anche un rosso corposo - che non costi meno di due euro e mezzo a bottiglia - si presta bene allo scopo.

"That win the best!", come direbbe il poeta.

Da preparare ascoltando: Aphrodite's Child - "Tribulation" - dall'album "666" (1972).

NdIO: non sapete cos'è la φέτα né tantomeno cosa sono le τσυκιηε? Un buon motivo per pentirvi di non aver fatto il classico (mica come me che ho fatto lo scientifico) :)

martedì 22 maggio 2007

Evualà!

Completato il trasloco da splinder (che ringrazio) verso la piattaforma blogger.com, allo scopo di avere un po' più di controllo sul layout della pagina.

"Chissene", direte voi. E così sia.

Bentrovati (ma cos'è questa eco?)

mercoledì 16 maggio 2007

Sciapò!

C'è chi i funghi li coltiva, chi li raccoglie nei boschi, chi li compra al mercato e chi li fa crescere con noncuranza nel proprio frigorifero.

Non so voi, ma io appartengo all'ultima categoria, come conferma il fatto che il cattura odori che ospito nel frigidaire vi giace stoico sin dal remoto Luglio 2004, in barba alla sua dichiarata durata semestrale.

Semmai vi ritrovaste degli sciampignòn abbastanza grandi (non sto qui a questionare sulla loro provenienza e poi io mi trovo bene anche con gli agarici bisporosi) potreste avere la malsana idea di sbarazzarvene come segue.

Dopo averli lavati, ripuliti della terra e della pellecchia che hanno in cima, scappellateli (dialettale) e tranciate la parte finale del gambo, quella che è di solito a contatto col letame, anche se non siede in parlamento.

Nel frattempo, pìjate un bel pezzo di guanciale (o di materasso, se preferite) - non piccante - e ricavatene tanti pezzi quanti sono le cappelle di cui sopra.

Essendo fungi, dette cappelle dovranno per l'appunto fungere da contenitori per il guanciale, per cui badate a che i pezzi che avete tagliato dal salume non siano né troppo grandi né troppo piccoli per tale scopo.

Farcite ogni cappella con un pezzo di guanciale (orsù! sbrigatevi, che il tempo e tiranno e il pupo piange...)

Contemporaneamente (va bene anche in una dimensione parallela, se ci riuscite) sminuzzate i gambi e saltateli in padella per dieci minuti, a fuoco basso, con aglio, olio (poco!), e una stilla di concentrato di pomodoro, aggiungendo del tamari verso metà cottura.

Se siete tamarri potete pensare di aggiungere all'intruglio anche del prosciutto cotto sminuzzato, che dà al preparato un tocco decisamente zen.

Occhio che il tamari è SALATO, ergo non aggiungete sale...

Amalgamate spesso durante la cottura, assaggiando di tanto in tanto giusto per assicurarvi che i funghi utilizzati siano davvero sciampignòn e non amanite falloidi (se avete questo dubbio, in verità, è meglio che ad assaggiare sia il gatto o la suocera in visita).

Preparato il preparato, usatelo per ricoprire il contenuto delle cappelle (come sopra) in modo da riempire gli eventuali interstizi tra il guanciale e il resto, laddove - di solito - si annida il pigiama o l'uomo nero.

Infornate e informatevi ogni tanto sullo stato di cottura.

Quando i funghi si sono un po'putrefatti e hanno scolato acqua & tamari, estraeteli dal forno con dei guanti da saldatore, quindi ricopriteli con pepe nero macinato fresco e prezzemolo tritato.

Magnateveli alla facciaccia mia, ed affrettatevi a chiamare il micologo al primo accenno di vomito fosforescente: nel caso, il sintomo descritto può essere dovuto alla scarsa qualità del passito di Pantelleria con il quale li avrete accompagnati (Veronelli dei miei stivali!)

Per discutere di eventuali allucinazioni e stati sciamanici contattate pure Carlos Castaneda, se ci riuscite (un piccolo aiutino lo trovate qui).

Il piatto è multiforme, nel senso che a seconda della quantità pro-capite di cappelle (no pun intended) può fungere (no pun intended - reprise) sia da secondo che da contorno: ai postumi l'ardua sentenza.

Da preparare ascoltando: Bardo Pond - Amanita (1996)

A.M.E.N. (Acqua Minerale Effervescente Naturale)

venerdì 11 maggio 2007

La bandiera

Leggenda vuole che la pasta alla carbonara venisse consumata negli ipogei ottocenteschi dell'Italia centro-meridionale, durante le riunioni degli appartenenti alla società segreta della carboneria, da cui per consuetudine acquisì il nome.

Analogamente, la bandiera (nota al volgo anche come pasta rucola e patate) è piatto che lega le sue origini e la sua denominazione ad una società segreta, proto-repubblicana e anglo-pugliese (sulla falsariga della Giovine Italia di mazziniana memoria), di cui non è rimasta alcuna traccia se non le poche e scarne note biografiche del suo fondatore, il teologo luciferino Teodoro Lapatana [ Rocchetta Sant' Antonio (FG) 1828 - Isole Kerguelen (Territori Francesi Meridionali) 1885? ].

Il Lapatana ebbe a codificare questa ricetta durante la sua prigionia nel carcere di Corigliano Calabro, ove si trovò rinchiuso a scontare una pena di anni due (aggravata da una multa di sei baiocchi) per oltraggio al comune senso del reale.

Il patriottismo del Lapatana - unito alla sua smisurata arguzia - gli suggerirono il curioso stratagemma culinario per propugnare (essendo egli collaboratore coatto delle cucine del carcere coriglianense) il suo fervore patriottistico nei confronti della nascente nazione italiana (RIP).

Non si sa se tale opera propagandistica ebbe effettivamente successo: l'unica certezza è che da quel momento, come attestano senza tema di smentita le ricerche dello storico Abulafia, la feccia rivoluzionaria dell'ex regno borbonico volle farsi internare esclusivamente nel carcere di Corigliano, adducendo le più svariate scuse et fantasiose.

Chiunque voglia seguire le orme del Lapatana dovrà procurarsi:

  • patate bianche
  • rucola
  • pomodori da sugo (o polpa di pomodoro in scatola)
  • aglio
  • mezze penne rigate o penne lisce
Per dovere di documentazione riportiamo qui la ricetta originale, rinvenuta nel 1955 sotto forma di graffito policromo in un'intercapedine dei bagni del carcere coriglianense.

"...(chiunque) addesideri appropincuarsi all'arte preparatoria dell'abbandiera dovrà per prima cosa procedere al lesso delle pàtane, duopo averle pelate, lauate et trinciate in guisa di tocchetti.

Dette pàtane dovranno essere allessate in abbundante aqva salata e da essa venir traslate - ad avvenuta coquitura - tramite un mestolo a scolìno che lasci inalterato nel calderone il contenuto liqvido originario seppur restringiuto di misura.

Riportando l'aqva ad ebollitione, sarà dunque cura aggiungervi li maccaroni scelti, badando che questi appartenghino alla nobile familia de li maccaroni cuòrti ovvero medii.

Nel frattempo, all'intrasatta, le pàtane andranno mantenute càlide càlide in un bugliolo coperto.

Aiutandosi cum un autra tìella, soffriggiere l'allio in poco uoglio et dunque aggiungervi la conserva di pomidoro o li pomidoro da sarza precedentemente lessati e spellati e scamazzati.

Salare si vù plè.

A metà coquitura de li maccaroni, aggiungere nuovamente le pàtane lesse alla broda di cottura, seguitare con l'aggiunta de la rucola lauata e sminuzzata gruossolanamente.

A coquitura avvenuta, scolare il tutto mediante schiumarola, aggiungere la sarza di pomidoro preparata a parte et servire con una mano sul quore et l'isguardo ritto ritto verso il cielo.

Che lo appetito vi sia gagliardo.

Si nun risultate aggabbiati (NdT: 'carcerati') et quindi sottoposti a le restrizioni d'ordine manducatorio et bibitorio che tale situazione comporta, potreste pensare di accompaniare la sbobba a lo palato mediante capienti calici di cacc' 'e 'mmitt' de Lauceria.

Beati vobis, sicchè.

Per le medesime rationi potreste addivoler recoprire lo piatto cum freschi trucioli de riqotta stagionata et salata, ma ciò non vi sia d'obbligo.

Vogliate scusarmi, gentili attenditori, se conchiudo
qui la trattatione, che mi comincia lo turno alla lauanderia.

Coriliano di Calabria - giorno terzo de lo mese de Junio a.d. 1878

L.M.GfDP. S.E.

T. Lapàtaine"


Cos'altro aggiungere alla poesia delle parole di cui sopra? Ah, sì: facìteme sapè còmme ve viène!

Da preparare ascoltando:

[ Dedicato alla memoria di Giovanni Passannante ]

martedì 8 maggio 2007

Fave & Cicorie

Piatto tipico della tradizione contadina pugliese, di recente assurto con pieni onori al rango di raffinatezza culinaria e servito - udite udite! - financo nei ristoranti di un certo livello (i.e. quelli da evitare accuratamente).

Pur essendone estremamente goloso, cerco di limitarne al minimo l'assunzione visto che la sua preparazione è solita lasciare in cucina un caratteristico odore di piedi marci (tipo, per intenderci, superga-d'estate-senza calze).

Ma se si è avvezzi a mangiare taleggio e gorgonzola DOP (o a portare i fantasmini), non c'è problema.

Inoltre, non è un piatto che si può improvvisare visto che la pre-preparazione delle fave (secche) richiede almeno 6 ore, durante le quali queste vanno lasciate a bagno in acqua fredda che le copra bene.

Per continuare con l'acconciatura, bisogna seguire due passi distinti:

1. preparazione della cicoria
2. preparazione delle fave

Il passo 1) è banale: una volta lessate in acqua non salata le cicorie (anche surgelate vanno bene) si procede a saltarle in padella con aglio (tanto), olio (pugliese, hai visto mai!) e peperoncino piccante, preferibilmente fresco.

Il passo 2) è anch'esso banale stanti le premesse: in una pentola di coccio riempita d'acqua salata (poco) aggiungere le fave ravvivate e scolate dall'acqua del bagno di mezzanotte.

Quando l'ebollizione (su fiamma alta) è decisa, e le fave completamente sfaldate - occhio che ci vuole almeno mezz'ora! - recuperare una cucchiara di legno, un foglio di carta e una penna.

Il foglio di carta e la penna servono per annotare - dopo averlo scelto - il verso di rotazione rispetto al quale amalgamare le fave, onde mantenerlo inalterato sino a fine cottura.

Il perchè di questa consuetudine si perde nella notte dei tempi, ma se è vero che i Dogon del Mali conoscono la natura binaria di Sirio (indeterminabile ad occhio nudo), allora un terrazzano potrà ben aver avuto quel minimo di nozioni di tissotropia atte a codificare siffatto procedimento.

Mia moglie (pugliese DOC) mi suggerisce di mescolare il composto in senso orario: interrogata sul perchè, la tizia non rispose.

Ne deduco che

  1. il verso orario è più facile a ricordarsi (a meno che non si siano sempre usati orologi digitali)
  2. mia moglie è una strega
Il rimestìo, da compiersi ogni cinque minuti, termina finalmente quando le fave sono del tutto sfaldate e l'acqua di cottura completamente assorbita.

La consistenza del composto deve essere liquida ma decisa: tipo il mou contenuto nei Mars™) ma ben più granuloso.

L'importante è che nella purea non si individuino grossi grumi leguminosi. Nel qual caso, come già suggerito in occasione di un'altra ricetta, maledirsi abbondantemente.

Il tutto va servito unendo alla purea di fave, spiaccicata in un piatto piano, un grosso quantitativo di cicorie e condito con olio crudo (i.e. appena colato dall'ogliarulo).

Il piatto è consigliato:
  • ai favici antipatici di cui vogliate sbarazzarvi (a loro insaputa)
  • a chi non si formalizza di fronte ad un rutto di soddisfazione a fine pasto.
Al solito, viene meglio se accompagnato da un vino rosso di quelli che macchiano la bottiglia. A tal proposito consiglio il vino di produzione del padre di un mio amico originario di Ferrandina (MT), utilizzabile - qualora necessario - in vece della nafta agricola: lo potete trovare in distribuzione presso qualsiasi stazione Q8 della Basilicata.

Da preparare ascoltando: Tool - ænima (1996) - Stinkfist, per ovvi motivi.

Augh!

lunedì 7 maggio 2007

Hummus (in fabula)

Spesso (due volte in vita mia, una delle quali in occasione del mio addio al celibato) mi è capitato di andare a mangiare da Zenobia, un ristorante siriano piuttosto noto a Roma e localizzato in piazza Dante, a pochi passi da via Merulana.

Orbene, a parte per le sue formosissime danzatrici del ventre, alcune delle quali centocelline DOC, il ristorante mi è rimasto particolarmente impresso perchè è colà che vi ho mangiato per la prima volta (non me ne voglia il compagno Pablo se non ho considerato quella famosa cena a casa sua, ma non mi ricordo bene...) lo hummus, ovvero il purè di ceci - ma è riduttivo chiamarlo così - tipico della cucina mediorientale.

Esso (lo hummus, non Pablo) si distingue per la sua capacità di tornare alla mente, sottoforma di esalazioni gastriche, nei momenti più inaspettati della giornata.

Ciònonostante si rivela comunque un piatto meritevole che si può servire come antipasto, spalmato sui crostini, sul pane arabo o sul pane raffermo (rispetto al quale ha il pregio di coprire l'odore dell'eventuale muffa penicillica), ma soprattutto in accompagnamento ad un secondo di carne.

La mia variante (tanto per cambiare) è stata votata con quattro mezzelune su cinque da parte di una mia conoscente che ha vissuto svariati anni in Egitto (e più precisamente al Cairo, dove ci sono più italiani che a Milano d'Agosto).

Che poi codesta conoscente sia la massima esperta mondiale nell'aprire coi denti le buste dei "Quattro scarti in padella™" poco importa.

Orbene, tornando all'hummus, per la sua esoterica preparazione servono:

  • Un frullatore massiccio, di quelli col contenitore alto (se proprio amate le comodità potete utilizzare in vece del frullatore un docilissimo pestello in alabastro)
  • Ceci in scatola (se proprio volete potete sostituirli - bleurgh! - con quelli secchi lasciati a bagno tutta la notte... Dio che schifo!)
  • Limoni (all'incirca uno per ogni scatola di ceci, più uno accessorio: fatevi voi i conti)
  • Aglio (q.b. per prolungare le esalazioni di cui sopra)
  • Peperoncino (q.b. per rendere il preparato indimenticabile al palato e alle ragadi)
  • Prezzemolo (anche secco, tanto pochi notano la differenza)
  • Una confezione di tahina, la diffusissima crema di sesamo in vendita presso qualsiasi banchetto abusivo ai mercati generali. Questa non ha alternative, per cui procurarsela diventa un obbligo. Occhio a non chiederla ad un poliziotto in borghese.
Cominciare spremendo tutti i limoni tranne quello decorativo, che va tagliato in spicchi sottili dopo essere stato lavato, disinfettato e accompagnato in questura (ho visto gatti pisciare sugli alberi di limone nel giardino di mia nonna, per cui la prudenza non è mai troppa).

Scolare una scatola di ceci alla volta (se il vostro frullatore è mostruosamente potente, procedere con un quantitativo maggiore) badando a lasciare un po' d'acqua nel contenitore.

Versare i ceci nel frullatore (acqua inclusa) insieme ad uno spicchio d'aglio già sminuzzato (se non vi fidate delle lame del coso) e al peperoncino, anch'esso sminuzzato.

Aggiungere una parte di succo di limone (regolarsi in base a quanto è il succo a disposizione) e frullare come delle bestie fino a che:
  1. il frullatore non esplode
  2. i ceci non si suddividono tra quelli che stanno sotto le lame del frullatore e quelli che stanno sopra le lame del frullatore, rendendo innocuo il frullìo dello strumento.
  3. i ceci e il resto degli ingredienti non si trasformano in una crema densa, tipo gelato artigianale
Nel caso 1) mi dispiace. Leggerò di voi in cronaca nera.
Nel caso 2) scuotere (badando ad aver staccato il frullatore dall'alimentazione) il contenitore in modo da riorganizzare la struttura interna del composto e ripartire con il frullìo.
Nel caso 3) complimenti, poi fatemi sapere che frullatore avete.

A parte il punto1), per il quale non c'è rimedio, se per caso non fosse possibile riuscire a schiodarsi dal punto 2) aggiungere un po' d'acqua tiepida, o dell'olio di sesamo (lo troverete in cima alla tahina) o dell'olio d'oliva, in modo da compattare il compattabile.

I fortunati che riescono a raggiungere il punto 3) possono a questo punto ritenersi soddisfatti e dunque aggiungere un bel cucchiaione (o mestolo, se preferiscono) di tahina, per poi ri-frullare il tutto, così, tanto per completezza. Occhio, poi, a non leccare il cucchiaione pena un allappamento palatale degno del più acerbo dei cachi.

Il contenuto va travasato in una bella ciotola di terracotta decorata con una mappa cinquecentesca della città di Damasco.

L'operazione va ripetuta fino a che non si esauriscono i ceci (o fino a che non vi esaurite voi).

A questo punto la ciotola conterrà un composto dal peso molecolare equivalente a quello della kryptonite (e dal colore non troppo dissimile, soprattutto durante una giornata piovosa) che va appianato con un cucchiaio visto che la sua viscosità naturale - analoga a quella dell'asfalto ghiacciato - non glie lo permette.

Il contenuto della ciotola va quindi ricoperto con il prezzemolo tritato e guarnito con le fettine di limone decorativo (se la questura gli dà il nulla osta).

Non mi ricordo se ci metto il sale, forse sì ma poco durante la frullatura.

Enjoy!

E non dite al vostro gastroenterologo di venirmi a cercare... :)

MyChickenTandoori (wannabe)

Allora, come s'è capito sin qua, mi piace molto sperimentare con quel poco di cui solitamente dispongo nel frigo, e fin ora mi è sempre andata bene, nel senso che almeno un pasto (commestibile) al giorno sono riuscito a garantirmelo, da che io ricordi.

Poichè mi picco - coi miei conoscenti - di essere bravo a replicare a casa piatti assaggiati nei luoghi più improbabili (senza chiedere la ricetta), mi sono cimentato in questa replica del pollo tandoori non potendo disporre - però - di:

  • yogurt
  • pollo
  • masala (& massullo, ma questa la capiscono in pochi, soprattutto se hanno vaghi ricordi di Los Angeles '84)
  • le restanti spezie
  • pomodori
  • forno tandoor
In pratica, mi sono ritrovato con:
  • petto di tacchino (non a fette)
  • cinque o sei limoni
  • paprika come fosse coca nel bagno dell'Hollywood
  • zenzero in polvere (almeno questo, eccheccazzo!)
  • forno a gas
e pervaso dallo spirito del dio Ganesh ho proceduto in questo modo.
  1. Ho spremuto TUTTI i limoni con uno spremiagrumi che filtrasse i semi e la pellecchia.
  2. Ho aggiunto un cucchiaio grande di polvere di zenzero alla limonata.
  3. L'ho versata in una ciotola a coppa grande.
  4. Vi ci ho fatto marinare il petto di tacchino tagliato a bocconcini per due / tre ore (in frigo).
Poidichè, ho steso la paprika (dolce) in un piatto grande e vi ho "impanato" (si può dire "impanato" parlando di paprika? Vabbè, diciamo impaprikato) i bocconcini di tacchino.

Li ho disposti in una cazzarola, separati l'uno dagli altri.

Ho infornato a 15.000 °C per 0,3 femtosecondi.

Qualora non si disponesse di un timer da cucina con la risoluzione dei decimi di femtosecondo si può optare per una cottura a spanne, chè l'importante e che il tacchino non si asciughi come le braccia della R.L. Montalcini. Ah, occhio a rigirare ogni tanto i bocconcini!

Se vi avanza paprika nel piatto & qualche ettolitro di brodaglia (come potreste chiamare altresì il misto di limone, succhi proteici del tacchino e zenzero da discount?), mescolateli e aggiungete il risultato nella teglia a metà cottura, in modo da dare un minimo di fondo al preparato.

Il sale va rigorosamente aggiunto dopo aver tirato fuori la teglia dall'altoforno.

Certo, una spruzzata di prezzemolo fresco non avrebbe fatto male, se solo l'avessi avuto.

Buono - in accoppiata - un bel rapitalà ghiacciato. Ma anche una brocca d'acqua fresca di sorgente (che fa molto ayurveda) è la morte sua.

Alla fine Ganesh m'ha sputato in un occhio con la sua proboscide (quella di sopra, maliziosi!).

Poi, però, il cornutazzo s'è sbafato tutto.

Petit-pain arabe (et provocateur)

Detto anche "ruòtolo Yin e Yang" per l'accostamento di componentistica allopatica ma che sta bene insieme (e quanto, oh, solo voi lo potete sapere!).

Occorrenti:

  • Mortazza fresca tagliata fina fina (sotto casa mia ne vendono tre etti a 1,86 Euro)
  • Caciocavallo o provolone piccante (sotto casa mia non ne vendono di buono, per cui approfitto quando torno dai miei e ne faccio scorta)
  • Panino da kebab / shawerma (sotto casa mia ne vendono 10 per 1 Euro)
L'accostamento tra la mortazza infedele e il panino da kebab dell'ortodossia musulmana più pura & dura può provocare scontri culturali a livello intestinale. Con la mediazione del caciocavallo italico, tutto finisce a taralluzzi e vino.

Per la preparazione non credo ci sia bisogno di spiegare nulla, se non che la mortazza va spiaccicata para para nel panino, ricoperta con il formaggio di vostra scelta (rigorosamente uno tra i due su menzionati) e il tutto va arrovogliato come fosse un cannellone.

Nella preparazione si è voluto rendere omaggio a quei sommi esempi d'intellighenzia paramilitare israeliana che suggerivano (se ne parla anche qui) di avvolgere i corpi dei kamikaze palestinesi (o ciò che ne rimaneva) in pelli di maiale, in modo da impedire all'anima (di chitammùrt) di raggiungere il paradiso & le 72 lubriche uri, sconsigliando così agli improvvidi di provarci a farsi saltare in aria un'altra volta (un'altra volta?!?!?!).

Poi, un barbuto muftì dodicenne gli ha spiegato che l'anima dei "martiri" di cui sopra se ne va a ramengo immediatamente appresso all'atto della morte, per cui ciccia.

A proposito di vini, il ruotolo siffatto va gustato in abbinata ad un nobile rosso israeliano, magari uno Shiraz*, in modo da completare appieno il metaforico processo di pace (intestinale più che internazionale).

Se proprio non ne doveste disporre, va bene pure un rosso dei castelli o un primitivo di Manduria. Anche il salice salentino non sfigura.

Per i più avventurosi (e per i discepoli della scuola diplomatica meneghina) sostituire ai caci papabili, una spalmata di gorgonzola piccante.

Jatavènn' a fa'ngùl!

*N.d.IO: maddèche, ahò, manco so cazzhoscritto!

Pasta alla sarcazzo

Detta pasta è così chiamata perchè di origine ignota, anche se in alcuni testi risulta indicata come "pasta alla saudade" - vista la natura emotivamente melancolica di chi si accinge a prepararla - o "pasta alla Brachetti", a causa dell'innumerevole quantitativo di varianti - palesi et occulte - con cui si configura.

Di sicuro, chi è stato studente universitario fuori sede l'ha preparata almeno una volta, seppur inconsciamente, visto che per la sua preparazione si sfruttano tutte quelle cose (pasta esclusa) di cui ogni frigorifero, anche il più fètido, dispone di default.

Nell'ordine serviranno:

  • Due / tre spicchi d'aglio senza pellecchia
  • Capperi (sotto sale o sott'aceto è ugualo), diciamo un cucchiaio
  • Acciughe (sotto sale o sott'olio è ugualo l'istesso), diciamo cinque o sei di quelle piccole
  • Peperoncini (secchi o freschi è ugualo, anzi no, meglio freschi e possibilmente infernali)
  • Pomodorini (da evitare quelli grandi da insalata), diciamo un grappolo piccolo
Le varianti più raffinate prevedono anche:
  • Pan grattato ('nu pàr 'e cucchiàr 'ra cucina)
  • Pomodori secchi (sott'olio o meno, non importa: in ogni caso la loro presenza esclude i pomodorini)
  • Olive nere (chèlle ca' truàt)

e ovviamente pasta (se lunga da preferire nell'ordine vermicelli, spaghetti, linguine o - extrema ratio - bucatini, se corta fusilli, ziti, penne, mezze penne o rigatoni, se fresca cavatelli o trofie).

Mentre si acconcia la pasta com'è risaputo (acqua -> pentola -> fornello -> sale [POCO!] quando bolle), si prepara in padella il condimento, soffriggendo l'aglio e i peperoncini spezzettati a mezza fiamma in una buona dose d'olio extravergine d'oliva di prima spremitura a freddo (ma va bene pure l'olio scrauso accattato al supermarket, se non vi formalizzate).

Dopo un minuto che l'aglio & il fravaglio hanno cominciato a sfrigolare, si porta la fiamma al minimo e si aggiungono le acciughe (si acciungono :), lasciando la fiamma bassa per evitare che l'acqua contenuta in esse provochi scoppi d'olio bollente che neanche la presa di Gerusalemme.

Ogni tanto scamazzare (pron.: sh'camazza're) le acciughe con un cucchiaiaccio di legno bisunto, in modo da ridurle in poltiglia (evitando di fare lo stesso col cucchiaiaccio).

Tra una scamazzata e l'altra, lavare i pummaroli (chìlli peccerìlli, mi raccomando), tagliarli in quattro parti e conservarli in un piatto di plastica o equivalenti.

Quando delle acciughe non vi sarà più traccia in padella (perchè la loro combustione avrà prodotto una poltiglia oleosa e torbida ancorchè sapida, piccante & agliata) aggiungere i pomodorini tagliati.

A questo punto continuare la cottura alzando la fiamma, badando a che il composto praticamente lavico non si asciughi troppo. Nel qual caso, spegnere la fiamma e maledirsi.

Poco prima che la pasta sia pronta, diciamo 'na minuta, minuta e mezza, aggiungere i chiappari al condimento, mescolare e lasciar sfrucugliare n'altro po'.

Quando la pasta è pronta e scolata, riversarla nella padella ancora su fiamma media e revòtarla con decisione due, tre, quattro volte.

A questo punto, i patiti dell'esotico possono aggiungere un po' di pan grattato per amalgamare il tutto qualora dovesse risultare troppo oleoso (ma va?).

Altre varianti, dicevo, prevedono la sostituzione dei pomodorini freschi con quelli secchi (eventualmente sott'olio), da tagliuzzare e da aggiungere in concomitanza coi chiappari per evitare che poi brucino e sappiano di selvatico.

Il tutto non va impiattato ma servito rigorosamente nella stessa padella usata per cucinare il condimento e accompagnato da una familiare di Peroni ghiacciata (la Baffo d'oro si presta altresì egregiamente) bevuta a canna.

Nel caso in cui al desco sieda più di una persona allora:
  • Se siete in confidenza con il / lo / la / i / gli / le partner, magnate tutti nella stessa padella (con forchette diverse o con la stessa, poco cambia) schizzandovi allegramente d'olio e pangrattato.
  • In alternativa, adducete una scusa e cacciate di casa gli altri maledetti spilorci che sono venuti da voi ad approfittare di quel poco che avevate da mangiare senza manco portare il vino (che tanto non serve, ma questo lo sappiamo io e voi)
Buonappetito, e occhio all'alito!

PS: Ah, già, le olive nere! Snocciolatele (se le avete, capitalisti del menga!), sminuzzatele e aggiungetele al calderone dopo aver maciullato le acciughe.

UPDATE dell'ultima ora (sennò mia moglie s'incazza): per motivi di copyright, si avvisano i gentili lettori che questa ricetta è nota anche come "Pasta alla Stefania".

PPS: Ciao, amore! :D :x