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venerdì 8 giugno 2007

'bbrasciòla di cavallo al zùco

Foggia è una città ben strana.

A Foggia molte cose perdono il loro vero nome per acquisirne un altro che poi, per consuetudine, si sostituisce al primo nell'immaginario collettivo (e spesso ignaro) sino a diventare più vero del vero.

Ad esempio, da tempo immemore (cioè da quando io ho facoltà di ricordare) a Foggia esiste una Piazza Libanese. Che a me, già da régazzino, mi pareva un nome inusuale: quando mai s'è vista una piazza aggettivata? Libanese, poi.

E perchè non Etiope o Tagìka?

Ma quando la sentivo appellare così financo da due solide e concrete casalinghe quali mia madre e mia nonna materna, beh, allora mi rassegnavo ai miei dubbi adolescenziali.

Poi all'improvviso ho scoperto quali fossero gli altri significati della parola libanese, in seguito quale fosse l'attività clandestina per cui la piazza omonima era famosa, e quindi - finalmente! - il perchè di quei capannelli di 'ggiuv'n uagghiùn' [0] assiepati nottetempo in Parco Volontari della Pace.

Più che ingenuo sono duro di comprendonio, lo ammetto.

Esistono anche altri casi eclatanti di perdite d'identità anagrafica, riferite solitamente alla toponomastica degli esercizi commerciali.

Il chiosco La ghiacciaia, sebbene così registrato alla camera di commercio, in realtà non è mai esistito in quanto tale: il suo nome originario è da sempre soppiantato nella memoria dei foggiani dal più familiare 'a cantìn' d' P'ppùzz' [1], universalmente nota a causa dei tappi di birra Raffo incastrati dagli avventori con inusitata perizia nell'asfalto innanzi all'ingresso, e per i rùtt' [2], sgàrrùtt' [2bis] e quàtt' chitàmmùrt [2ter] che prorompono dagli avventori stessi ad ogni minima occasione, anche la più inutile.

Poco distante, nascosto in una viuzza a senso unico di fianco all'Accademia di Belle Arti e non molto lontano dalla vecchia questura, giace un altro esempio caratteristico di tali identità commerciali multiformi: la taverna / pizzeria La grotta azzurra, nota ai foggiani - e dunque al mondo intero - con l'affettuoso appellativo di 'u 'nz'vùs [3].

Ed è proprio dall'Inzivoso [4] che ho potuto riassaporare una delle massime espressioni di quel caratteristico piatto foggiano della domenica di festa che è, per l'appunto, la 'bbrasciòla di cavallo al zùco.

Neanche a farlo apposta, a Foggia la 'bbrasciòla (braciola) non è quello che sembra.

Uno dice "braciola!" a Milano, e si vede servire un bel pezzo di carne alta un dito, ancora attaccata all'osso e cotta alla brace (da cui il nome).

Uno dice "braciola!" a Roma, e uguale.

A Napoli, idem.

A Foggia no: a Foggia la braciola è l'involtino di carne cotta nel sugo. Tenuta insieme a volte da un doppio filo di cotone, a volte da stuzzicadenti o spiedini di metallo, e comunque farcita d'aglio, prezzemolo, formaggio e pepe. Presso i più nobbbili, anche di prosciutto cotto e omelette (la frittatina, certo!).

Per prepararla non occorre particolare perizia ma gli ingredienti giusti, quelli sì.

Nell'ordine:

  • agghij' (aglio)
  • ogghij' (olio)
  • sàrz' d'pùmmadòr' (salsa di pomodoro)
  • p'trùsìn' (prezzemolo)
  • p'cùrin' (formaggio saporito)
  • pèp' nìr' (pepe nero macinato)
  • carn' d'cavall' p'ì 'bbrasciòl' (fettine di carne di cavallo tagliate a medio spessore)
  • carna gràss' p'anzapurì 'u zùg' (carne meno pregiata, tipo maiale o muscolo, tagliata a pezzi grossi, utile per dare un fondo più robusto al sugo)
Parte dell'aglio va tritata insieme al prezzemolo, quindi mischiata al formaggio grattugiato ed al pepe e utilizzata per farcire le fettine di carne, disponendo il composto ad uno degli estremi della fettina, in modo che arrovogliando quest'ultima su sè stessa e cominciando proprio da tale estremo, la farcitura arrivi a trovarsi infine al centro della braciola.

Indi si procede alla chiusura dell'opera utilizzando il mezzo più consono (cotone, stuzzicadenti o spiedini). Mia nonna, per inciso, prediligeva il cotone. L'Inzivoso, invece, gli stuzzicadenti di legno, più facili da riciclare e quindi tendenzialmente meno onerosi.

Nel frattempo, in una pentola abbastanza alta, si sarà fatto soffriggere l'aglio in olio sufficientemente abbondante, onde aggiungere prima i pezzi di carne d'accompagnamento e quindi le braciole.

Non appena la carne comincia a lasciare tracce abbrustolite sul fondo della pentola, si abbassa la fiamma e si attende un minuto che la temperatura dell'olio sia scesa prima di versare la salsa di pomodoro: se quest'ultima è fatta in casa clandestinamente, tanto meglio.

Si ravviva quindi la fiamma, si sala il tutto e ci si aggiunge qualche gambo di prezzemolo tanto per gradire.

La cottura deve essere lunga e, viene da sé, la fiamma non troppo alta.

Quando il sugo raggiunge la consistenza del purè di patate, allora è indizio che la cottura è ultimata. Se si attacca un po' alla pentola, male non fa.

Le braciole vanno servite per prime, immerse in un tripudio di salsa, quindi la carne d'accompagnamento, se la vostra panza conserva ancora un qualche anfratto libero.

Anche perché per gli avventori de l'Inzivoso il piatto in questione non è mai la prima portata, ma spesso segue a ruota un'altra delle famose delicatessen della casa, ovvero la pizza a bordo alto farcito di ricotta e salsiccia (il bordo!).

Per molti esseri umani, l'accoppiata è letale.

Ormai sono anni che non vivo più in pianta stabile a Foggia. Quando ci torno, sporadicamente, sono sempre troppo impegnato a salutare amici e parenti - quei pochi - per potermi dedicare ad una sana devastazione gastrointestinale come quando ero fanciullo.

Voci preoccupate che hanno raggiunto noi foggiani emigrati all'estero ci dicono che 'u 'nz'vùs' sia chiuso da un po', a causa di problemi familiari riscontrati dal signor Vittorio (il titolare del locale nonchè dell'appellativo di Inzivoso) e non ancora risolti.

Alcuni, invece, sostengono che il locale sia stato chiuso dai NAS, che durante un'ispezione di controllo pare abbiano visto uscire dalla cucina una fila di verruche in ciàvatte.

Quale che sia la verità, si tratta comunque di una perdita incommensurabile per la gastronomia di un certo livello (il più basso).

Una prece.

Da preparare ascoltando:



Note del Traduttore:

[0] Scansafatiche
[1] "La cantina di Giuseppe"
[2] Rutti
[2bis] Rutti fragorosi
[2ter] Bestemmie e contumelie indirizzate ai familiari morti del destinatario
[3] "Il lurido"
[4] "Il lurido", secondo la dizione adottata dal foggiano verace che cerca inutilmente di parlare in itaGliano

lunedì 28 maggio 2007

White Ragoo

Lo ammetto, il titolo è pretenzioso e fuorviante.

Primo, perchè è in inglese (lift yer handz all ye who know how to properly read - not daring 2 say 'understand' - some pidgin-Englischer words, aye! Me, I'm not).

Poi, perchè "ragù" (o meglio: "raù") si scrive così e non colì.

Infine, perchè non è un ragù nel senso vero e proprio del termine, visto che non ci vogliono 12 (dodici!) ore per la sua preparazione e non servono 852 (tanti!) tipi di carne diversa.

Basta un po' di sarciccia, di quella a punta di coltello o macinata grossa, non piccante e priva di semi di finocchio, come si usa a Mosca.

Astenersi luganeghe.

La sauciccia (o LE saucicce, a seconda di quanta ce ne si vuole mettere dentro) va spellata, spiaccicata con una forchetta e restituita per quanto possibile alla sua originaria costituzione 'a pezzettoni'.

Nel frattempo avrete avuto cura di soffriggere in poco olio un cipollotto sminuzzato (no: non ho detto scalogno) insieme ad un piccolo rametto di rosmarino fresco.

Contemporaneamente, lavate tre o quattro foglie di salvia e altrettante di alloro.

La prima, di solito, me la procuro in uno smart shop in via Oderisi da Gubbio (RM), anche se è di una varietà meno adatta alla cucina.

Il secondo, a parte prelevarlo dalla ormai smunta e rinsecchita corona con cui mi cinsi la testa (di minchia) aprés la laureà, lo trovo nel parcheggio del mio posto di lavoro o incastrato nel filtro dell'aria della mia macilenta Ford Orion bordeaux del '91, Khorakhanè edition.

Il gusto di quest'ultimo può rivelarsi un po' - come dire - pesantuccio: colpa del piombo tetraetile, forse.

Fregatevene, e prima che il soffritto sia solo un vago ricordo abbrustolito, aggiungete la sàvizicchia triturata e una gollata generosa di tavernello bianco o equivalenti in cartone.

Quando la salamella è a metà cottura (solo dio saprebbe come dedurlo: per interrogarlo, provate a chiamare uno di questi numeri e tenetemi aggiornato) si aggiunge al pasticcio un rametto di rosmarino per ciascun commensale, poi la salvia e quindi l'alloro.

Ho dimenticato di dirvi l'ovvio: e cioè, cuocete la pasta (media e contorta, tipo fusilli, se è fresca meglio ancora) , sinnò co' che v'o magnate 'sto schifo?

Se la saucisson è di buona qualità, manterrà un colorito chiaro senza sconfinare nel rosa o peggio nel fucsia fosforescente (come solo poche salsicce sanno fare, tipo quelle spacciate al TODIS).

La pasta, scolata, va mantecata rimestata nella pentola del soffritto e quindi ricoperta con una dose generosa di pecorino grattugiato.

Se proprio volete fare la figura dei gran signori, utilizzate i rametti soffritti di rosmarino (ricordate? uno per commensale, 'tacci loro!) per guarnire i piatti, badando a portarli a tavola con il dito pollice mollemente adagiato nel contenuto del piatto stesso ed il mignolo sollevato che neanche all'acme di una crisi da priapismo.

Al termine del pasto, e solo allora!, potrete dire a loro (i commensali) dove avete preso l'alloro e quanto gli verrà a costare - all'ora - il consulto di un buon nefrologo.

Spero abbiate avuto cura di abbinare al piatto un buon antigelo o al massimo il medesimo tavernello del soffritto, ché non si butta via niente.

Qualora necessitiate di un ulteriore ausilio alla pennica post-prandiale, potete abbinare al piatto qui descritto una lettura in lingua originale del mirabile Trattato sull'Astrolabio di Geoffrey Chaucer.

Da prepararsi ascoltando:

Craxi vostri.

mercoledì 16 maggio 2007

Sciapò!

C'è chi i funghi li coltiva, chi li raccoglie nei boschi, chi li compra al mercato e chi li fa crescere con noncuranza nel proprio frigorifero.

Non so voi, ma io appartengo all'ultima categoria, come conferma il fatto che il cattura odori che ospito nel frigidaire vi giace stoico sin dal remoto Luglio 2004, in barba alla sua dichiarata durata semestrale.

Semmai vi ritrovaste degli sciampignòn abbastanza grandi (non sto qui a questionare sulla loro provenienza e poi io mi trovo bene anche con gli agarici bisporosi) potreste avere la malsana idea di sbarazzarvene come segue.

Dopo averli lavati, ripuliti della terra e della pellecchia che hanno in cima, scappellateli (dialettale) e tranciate la parte finale del gambo, quella che è di solito a contatto col letame, anche se non siede in parlamento.

Nel frattempo, pìjate un bel pezzo di guanciale (o di materasso, se preferite) - non piccante - e ricavatene tanti pezzi quanti sono le cappelle di cui sopra.

Essendo fungi, dette cappelle dovranno per l'appunto fungere da contenitori per il guanciale, per cui badate a che i pezzi che avete tagliato dal salume non siano né troppo grandi né troppo piccoli per tale scopo.

Farcite ogni cappella con un pezzo di guanciale (orsù! sbrigatevi, che il tempo e tiranno e il pupo piange...)

Contemporaneamente (va bene anche in una dimensione parallela, se ci riuscite) sminuzzate i gambi e saltateli in padella per dieci minuti, a fuoco basso, con aglio, olio (poco!), e una stilla di concentrato di pomodoro, aggiungendo del tamari verso metà cottura.

Se siete tamarri potete pensare di aggiungere all'intruglio anche del prosciutto cotto sminuzzato, che dà al preparato un tocco decisamente zen.

Occhio che il tamari è SALATO, ergo non aggiungete sale...

Amalgamate spesso durante la cottura, assaggiando di tanto in tanto giusto per assicurarvi che i funghi utilizzati siano davvero sciampignòn e non amanite falloidi (se avete questo dubbio, in verità, è meglio che ad assaggiare sia il gatto o la suocera in visita).

Preparato il preparato, usatelo per ricoprire il contenuto delle cappelle (come sopra) in modo da riempire gli eventuali interstizi tra il guanciale e il resto, laddove - di solito - si annida il pigiama o l'uomo nero.

Infornate e informatevi ogni tanto sullo stato di cottura.

Quando i funghi si sono un po'putrefatti e hanno scolato acqua & tamari, estraeteli dal forno con dei guanti da saldatore, quindi ricopriteli con pepe nero macinato fresco e prezzemolo tritato.

Magnateveli alla facciaccia mia, ed affrettatevi a chiamare il micologo al primo accenno di vomito fosforescente: nel caso, il sintomo descritto può essere dovuto alla scarsa qualità del passito di Pantelleria con il quale li avrete accompagnati (Veronelli dei miei stivali!)

Per discutere di eventuali allucinazioni e stati sciamanici contattate pure Carlos Castaneda, se ci riuscite (un piccolo aiutino lo trovate qui).

Il piatto è multiforme, nel senso che a seconda della quantità pro-capite di cappelle (no pun intended) può fungere (no pun intended - reprise) sia da secondo che da contorno: ai postumi l'ardua sentenza.

Da preparare ascoltando: Bardo Pond - Amanita (1996)

A.M.E.N. (Acqua Minerale Effervescente Naturale)

lunedì 7 maggio 2007

MyChickenTandoori (wannabe)

Allora, come s'è capito sin qua, mi piace molto sperimentare con quel poco di cui solitamente dispongo nel frigo, e fin ora mi è sempre andata bene, nel senso che almeno un pasto (commestibile) al giorno sono riuscito a garantirmelo, da che io ricordi.

Poichè mi picco - coi miei conoscenti - di essere bravo a replicare a casa piatti assaggiati nei luoghi più improbabili (senza chiedere la ricetta), mi sono cimentato in questa replica del pollo tandoori non potendo disporre - però - di:

  • yogurt
  • pollo
  • masala (& massullo, ma questa la capiscono in pochi, soprattutto se hanno vaghi ricordi di Los Angeles '84)
  • le restanti spezie
  • pomodori
  • forno tandoor
In pratica, mi sono ritrovato con:
  • petto di tacchino (non a fette)
  • cinque o sei limoni
  • paprika come fosse coca nel bagno dell'Hollywood
  • zenzero in polvere (almeno questo, eccheccazzo!)
  • forno a gas
e pervaso dallo spirito del dio Ganesh ho proceduto in questo modo.
  1. Ho spremuto TUTTI i limoni con uno spremiagrumi che filtrasse i semi e la pellecchia.
  2. Ho aggiunto un cucchiaio grande di polvere di zenzero alla limonata.
  3. L'ho versata in una ciotola a coppa grande.
  4. Vi ci ho fatto marinare il petto di tacchino tagliato a bocconcini per due / tre ore (in frigo).
Poidichè, ho steso la paprika (dolce) in un piatto grande e vi ho "impanato" (si può dire "impanato" parlando di paprika? Vabbè, diciamo impaprikato) i bocconcini di tacchino.

Li ho disposti in una cazzarola, separati l'uno dagli altri.

Ho infornato a 15.000 °C per 0,3 femtosecondi.

Qualora non si disponesse di un timer da cucina con la risoluzione dei decimi di femtosecondo si può optare per una cottura a spanne, chè l'importante e che il tacchino non si asciughi come le braccia della R.L. Montalcini. Ah, occhio a rigirare ogni tanto i bocconcini!

Se vi avanza paprika nel piatto & qualche ettolitro di brodaglia (come potreste chiamare altresì il misto di limone, succhi proteici del tacchino e zenzero da discount?), mescolateli e aggiungete il risultato nella teglia a metà cottura, in modo da dare un minimo di fondo al preparato.

Il sale va rigorosamente aggiunto dopo aver tirato fuori la teglia dall'altoforno.

Certo, una spruzzata di prezzemolo fresco non avrebbe fatto male, se solo l'avessi avuto.

Buono - in accoppiata - un bel rapitalà ghiacciato. Ma anche una brocca d'acqua fresca di sorgente (che fa molto ayurveda) è la morte sua.

Alla fine Ganesh m'ha sputato in un occhio con la sua proboscide (quella di sopra, maliziosi!).

Poi, però, il cornutazzo s'è sbafato tutto.

Petit-pain arabe (et provocateur)

Detto anche "ruòtolo Yin e Yang" per l'accostamento di componentistica allopatica ma che sta bene insieme (e quanto, oh, solo voi lo potete sapere!).

Occorrenti:

  • Mortazza fresca tagliata fina fina (sotto casa mia ne vendono tre etti a 1,86 Euro)
  • Caciocavallo o provolone piccante (sotto casa mia non ne vendono di buono, per cui approfitto quando torno dai miei e ne faccio scorta)
  • Panino da kebab / shawerma (sotto casa mia ne vendono 10 per 1 Euro)
L'accostamento tra la mortazza infedele e il panino da kebab dell'ortodossia musulmana più pura & dura può provocare scontri culturali a livello intestinale. Con la mediazione del caciocavallo italico, tutto finisce a taralluzzi e vino.

Per la preparazione non credo ci sia bisogno di spiegare nulla, se non che la mortazza va spiaccicata para para nel panino, ricoperta con il formaggio di vostra scelta (rigorosamente uno tra i due su menzionati) e il tutto va arrovogliato come fosse un cannellone.

Nella preparazione si è voluto rendere omaggio a quei sommi esempi d'intellighenzia paramilitare israeliana che suggerivano (se ne parla anche qui) di avvolgere i corpi dei kamikaze palestinesi (o ciò che ne rimaneva) in pelli di maiale, in modo da impedire all'anima (di chitammùrt) di raggiungere il paradiso & le 72 lubriche uri, sconsigliando così agli improvvidi di provarci a farsi saltare in aria un'altra volta (un'altra volta?!?!?!).

Poi, un barbuto muftì dodicenne gli ha spiegato che l'anima dei "martiri" di cui sopra se ne va a ramengo immediatamente appresso all'atto della morte, per cui ciccia.

A proposito di vini, il ruotolo siffatto va gustato in abbinata ad un nobile rosso israeliano, magari uno Shiraz*, in modo da completare appieno il metaforico processo di pace (intestinale più che internazionale).

Se proprio non ne doveste disporre, va bene pure un rosso dei castelli o un primitivo di Manduria. Anche il salice salentino non sfigura.

Per i più avventurosi (e per i discepoli della scuola diplomatica meneghina) sostituire ai caci papabili, una spalmata di gorgonzola piccante.

Jatavènn' a fa'ngùl!

*N.d.IO: maddèche, ahò, manco so cazzhoscritto!