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lunedì 24 settembre 2007

Bentagliati di farina di grano duro e uova, con purea di pesce azzurro in salsa di liliacea, erbe aromatiche e poivre noir a velo

Bònjour,

questo post è un'evidente giuoco scherzoso (gli inglesi direbbero "pun", i francesi "pastiche", gli spagnoli "olè!") dedicato a tutti quei fini connoisseurs, un po' masochisti, che preferiscono cibarsi di piatti per i quali ci voglia più tempo a pronunciarne il nome che a consumarne le scarne porzioni servite presso i ristoranti più à la page.

Di solito, presso tali ristoteche, l'importo del conto risulta direttamente proporzionale al numero di parole che compongono i titoli delle libagioni, ovvero inversamente proporzionale alla grammatura delle medesime.

La popolazione culinar-blogghesca, soprattutto italiana, è strapiena di aspiranti cuochi et professionisti conclamati che ritengono sia un dovere descrivere la preparazione di un piatto nel nome del piatto stesso, realizzando così una sorta di pangramma assolutamente superfluo e inconcludente a fini gastronomici, ma che fa tanto scena.

Se nella preparazione vengono convogliati ingredienti che non si troverebbero manco nel gabinetto del dottor Caligari (es: il tamarindo) tanto meglio, secondo loro.

E l'uso del francioso risulta, per tali apprendisti stregoni, funzionale quanto l'aceto balsamico sulla burrata.

Giusto per chiarire come stanno qui le cose, questo post dovrebbe servire a preparare - qualora lo si desiderasse davvero - uno strepitoso piatto di cucina 'povera', che - in barba all'inflazione galoppante più di un'orda di cavalieri tartari lanciati alla conquista dell'Europa - mantiene tutt'ora le sue caratteristiche di economicità e sapidità.

In pratica, se non ci siete arrivati, stiamo parlando dei troccoli con le alici, ovvero di un piatto parente alla lontana della fantomatica pasta con le sarde di tradizione trinacriense.

Per prepararlo vi servono:

  • farina di grano duro
  • uova (una ogni etto abbondante di farina)
  • alici fresche sfilettate
  • qualche spicchio d'aglio
  • olio d'oliva
  • prezzemolo fresco
  • pepe nero
Con la farina e le uova va preparato il classico intruglio per la pasta fatta in casa. Se non sapete come fare potete:
  1. comprarla già fatta (ottima soluzione, a meno di non rivolgersi a quelle abominevoli preparazioni industriali vendute sotto vuoto nei supermercati)
  2. cercare su Google
Qualora decidiate di farla da voi seguendo l'opzione 2) allora dovete munirvi di un troccolaturo, ovvero un mattarello zigrinato che permette di tagliare la sfoglia in sottili strisce (in realtà prismi a base rettangolare) noti come troccoli o spaghetti alla chitarra.

Per il resto, l'aglio schiacciato e scamiciato (mi raccomando!) va fatto soffriggere in abbondante olio d'oliva e quindi estratto prima che il suo colorito cominci a diventare troppo scuro.

Nel frattempo avrete sfilettato e quindi tritato grossolanamente le alici FRESCHE, privandole altresì della coda e della testa.

Sulla scelta delle alici la questione è meno semplice di quanto si creda.

Presso il mercato Macaluso (sotto casa mia) ci sono due pescherie situate una al fianco dell'altra: la prima è gestita da una combriccola di tipi loschi, quasi sicuramente ex-galeotti condannati per reati contro il patrimonio, che probabilmente racimola il pesce che smercia prelevandolo dal fondo dei camion incustoditi utilizzati per il trasporto degli scarti ittici.

La seconda, invece, è amorevolmente accudita da una tenera sòra romanesca, ex sarta della casa reale, che per vocazione si è convertita all'agroittico.

Quando la signora non è impegnata nel retrobottega a mostrare ai suoi aiutanti (quasi sempre nordafricani) il modo migliore per maneggiare l'anguilla e il capitone, si dimostra venditrice accorta e coscenziosa.

Orbene, quando mi sono recato in cerca di alici ho come al solito sondato il terreno presso la prima e dunque la seconda pescheria.

Le alici erano presenti su entrambi i banchi: nel primo caso, il colorito nero-verdastro e il prezzo sui 2 (due!) euro al kg mi ha fatto desistere immantinente. Va bene tenere in conto il portafoglio, ma la vita è pur sempre un bene prezioso, quasi più del mattone.

Nel secondo caso (benedetta signora!) le alici - seppur morte - parevano ancora intente a guizzare nel profondo dei freddi mari di provenienza. Comunque diffidente, mi sono risolto a controllare con attenzione e ho constatato l'assenza di un qualsivoglia Lino Banfi sotto la cassetta, come mirabilmente esemplificato in una delle memorabili scene de "Al bar dello sport".





6 Euro al kg, seppur prossimo alla soglia massima stabilita dal mio inconscio, mi è sembrato in fin dei conti un prezzo onesto, tenendo conto che la sfilettatura delle alici è stata poi eseguita in loco liberandomi da un compito altresì gravoso.

Diciamo che 400 grammi di alici per due persone possono andar bene, a meno che non si voglia - giustamente - strafare. Fate vobis (magno gaudio).

Tornando alla preparazione del piatto, le alici (pulite, sfilettate, sminuzzate) vanno fatte soffriggere e al contempo ulteriormente maciullate con una forchetta in modo da sbriciolarsi il più possibile.

Nel contempo, avrete cura di cuocere la pasta al dente per poi scolarla e saltarla nella padella di cottura delle alici su menzionate.

Per terminare la preparazione, è necessario cospargere il composto pasta + condimento con abbondante pepe nero e prezzemolo fresco tritato.

Alla fine non rimane che servire il tutto per la gioia degli astanti e del cuoco-demiurgo.

A proposito delle alici, ho avuto conferma della loro bontà quando la mia gatta (Audrey, un meticcio femmina di circa cinque anni, inusuale incrocio tra un felino ed un cane da compagnia) ha cominciato a gironzolare nervosa e languida in prossimità del secchio della spazzatura, ove avevo depositato i resti della preparazione in attesa di rivenderli sottocosto ai tizi della prima pescheria.

Lei che non si scomodava in tali manifestazioni di gioiosa felinità manco di fronte a vari capi di salsicce fresche lasciate incustodite alla mercè dei suoi (pochi, in verità) dentini affilati...

Completa la preparazione e l'impiattatura (ma 'dde che? I troccoli l'amo magnati direttamente nella padella!) una sacrosanta bottiglia di Locorotondo d.o.c. servito freddo, che con i suoi aromi fruttati & pugliesi funge da controaltare naturale ad una portata così delicata ed eterea.

Un piccolo addendum per chiarire ogni dubbio in merito alla preparazione bricolage dei troccoli fatti in casa: lo strumento infernale da adoperare a tale scopo, ovvero il troccolaturo (in originale: "trocc'latùr") non va assolutamente confuso con il laganaturo (in originale: "lag'natùr", omaggiato nel nome da uno dei componenti della seminale band di grezz-metal foggiana "Immortadell"), ontologicamente deputato alla preparazione di tagliatelle e làgane.

Mi raccomando!

Concludo ringraziando quella santa donna di mia moglie per avermi proposto originariamente questa preparazione d'alta cucina che Bocuse sta ancora a rosicà.

Il piatto è consigliato a chi:
  • vorrebbe andare almeno una volta a cena presso il roof garden dell'Hassler Villa Medici, ma non ha mai le mutande adatte
  • si è fatto serigrafare la faccia di Gualtiero Marchesi sulle pareti interne dei sanitari
Da preparare ascoltando:
  • Alice in Chains - Would? (Dirt - 1992)
  • Immortadell - Vafammòcc' a mamm't (The age of grezz metal - 2006)
  • Alice - La bellezza stravagante (Viaggio in Italia - 2003)

venerdì 27 luglio 2007

L'orrore, l'orrore!

Joseph Conrad mi perdonerà se ho scelto di utilizzare le ultime parole di Kurtz (buonanima) per dare un titolo a questo post.

Ma quanti di voi avranno la pazienza (e il fegato) di osservare il video qui sotto, non potranno non convenire con me che tali parole sono l'unico epitaffio adatto ad un simile scempio.



Interessanti e costruttivi i commenti postati al video su youtube.

A questo punto mi auguro che il simpatico foodguru.com venga denunciato URGENTEMENTE presso il Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l'umanità.

"Mistah Kurz - he dead.
A penny for the Old Guy!"

giovedì 19 luglio 2007

Dogmaclastìa

Ovvero:

"Le regole sono come le ginocchia degli attaccanti avversari: esistono solo per essere infrante." (Hans-Peter Briegel)

In ambito gastronomico-culinario (tra tutti i possibili contesti di discussione, quello che decisamente genera i fomenti più astiosi) esistono una serie di precetti che - secondo il senso comune - NON vanno mai violati, pena le occhiate di disapprovazione dei vostri ospiti.

Tali occhiatacce sono generalmente accompagnate da una sequela di balloon da fumetto che recitano cose del tipo:

  • "Ai piatti di pesce va abbinato SOLO il vino bianco!"
  • "ll succo di limone va aggiunto POCO PRIMA di servire il piatto, sennò si ossida!"
  • "Nel soffritto non si usa MAI la cipolla, bensì lo scalogno!"
  • "L'aglio va lasciato SEMPRE incamiciato!"
  • "Il dado da brodo è ASSOLUTAMENTE da evitare!"
  • "Il sale grosso deve essere RIGOROSAMENTE integrale!"
  • "L'olio extravergine d'oliva DEVE NECESSARIAMENTE essere di prima spremitura a freddo e possibilmente lavorato in un frantoio del neolitico!"
  • "GIAMMAI condire funghi e pesce con il formaggio!"
e altre minchiate d'ordinanza.

Ora, io che di cucina ne capisco poco meno che di fisica quantistica ("...mi scusi un attimo, signor Planck, ma in questo momento non posso darle troppa attenzione: l'aspetto domani sera in Via Panisperna per quel convivio cui accennava Niels...") mi sono sempre curato poco di tali dogmi e ho sempre anteposto la curiosità e il gusto personale a qualsiasi tipo di precetto talebano.

Ecco perchè mi è spesso capitato di proporre, in cucina, l'equivalente culinario di un bestemmione a piena gola sotto il baldacchino del Bernini in San Pietro, un rutto fragoroso al culmine del pathos durante la rappresentazione - al Piccolo! - dell'Otellas di Nekrosius, un romanzo di Baricco in libreria, un'auto bianca e azzurra targata L'Aquila e parcheggiata davanti al Roma Club di Testaccio, oppure (gasp!) pagare anzichè essere pagati per andare a vedere un film di Muccino.

Alcune di queste blasfemìe, lungi dall'essermi state ispirate dall'oppio o da una cassoeula consumata a tarda sera, sono il frutto di sporadici e temerari tentativi di provare qualcosa di nuovo nelle rare volte in cui mi è capitato di andare a cena fuori.

Ed è proprio durante una di queste escursioni extramurarie che mi sono imbattuto nella Trattoria del Mare, ad Anzio (RM), un piccolo locale apparentemente senza pretese che giace spaparanzato sul molo del porto commerciale a pochi metri dall'imbarco dei traghetti per Ponza.

La trattoria è gestita da alcuni giovani anziani, e sulle prime non pare proporre nulla di particolarmente innovativo: solito trionfo di antipasti di mare (almeno 15 tipi diversi in un'unica voce sul conto), soliti primi ben curati e secondi altrettanto.

Dei vini non so dire: di lì a poco avrei dovuto guidare su strade parzialmente ignote, e non ho potuto apprezzare - pertanto - la possibilità di tracannare il mio solito litro e mezzo di Gotto d'Oro, da cui il mio disinteresse.

Orbene è stato con spavalderia mista ad un certo grado di ingenuità che ho osato ordinare degli spaghetti ai moscardini. La cameriera mi sorprende chiedendomi: "Ce lo vuole il formaggio sopra? Perchè sa, noi siamo soliti aggiungerci un po' di pecorino romano...".

"Come no!" è stata la mia poco convinta risposta, al punto che la cameriera mi richiede conferma, che giunge alfine positiva e un po' più decisa.

Questo il preambolo.

All'arrivo del piatto, in realtà una vera e propria còfana larga almeno quaranta centimetri e rorida di spaghetti e condimento, mio figlio (due anni e mezzo e nel pieno di una fase di avversione ferina nei confronti di tutto ciò che ha natura casearia) prorompe - a narici tappate - in un candido "Ghe bùzza!".

In effetti l'odore di pecorino misto al sugo di moscardini risulta abbastanza penetrante e, in qualche modo, estremamente stuzzicante all'appetito.

Fatto sta che la còfana si svuota nel giro di pochissimi minuti con somma soddisfazione mia, di mia moglie e di mio figlio, che può dunque riaprire all'aria le sue tenere narici.

Chiedo lumi alla cameriera che ci ha servito e scopro che il cuoco è uso aggiungere il pecorino in modica quantità (un cucchiaio) solo all'atto della rimestatura della pasta con il condimento.

Terminata la cena, gironzolo un po' per agevolare la digestione (ma sarei dovuto tornare a Roma a piedi per ottenere un qualche beneficio epatico) e mi accingo al rientro con in testa il buzzo di scrivere un post su questo evento.

Il conto è risultato onesto, soprattutto tenendo conto della grandeur assiro-babilonese delle porzioni, il servizio preciso e simpatico e la location suggestiva, con le barche ormeggiate a fare da quinta ai tavolini all'aperto.

Unico neo, la frequentazione media a base di cùmenda del litorale, culminata con l'arrivo di un fantomatico e totipotente Ingegnere (no, non io!) che parcheggia praticamente all'interno del locale come fosse il suo garage privato.

Tornando al piatto, questo andrebbe preparato - ad intuito - facendo saltare in padella due spicchi d'aglio insieme ai moscardini puliti e lavati.

Quando i moscardini cominciano a cambiare colore e a restringersi un poco, andrebbe aggiunto un mezzo bicchiere di vino bianco (ma anche la Sprite o il barbera d'Asti possono andar bene visto l'andazzo del post) e, dopo qualche minuto necessario a far cagliare il tutto, anche una goccia di concentrato di pomodoro, pepe nero macinato ed una modica quantità di pachino sminuzzati.

A parte (ma va?) cuocere la pasta, preferibilmente spaghettoni dal calibro delle gomene da diporto, da scolare al dente.

Quando pasta e condimento saranno pronti, unirli insieme ad un cucchiaio generoso di pecorino romano (che poi fanno in Sardegna, ma è un'altra storia) indi far saltare l'amalgama in padella con quel magnifico movimento di polso che fa tanto chèf d'alta scuola, ovvero onanista incallito ed un po' triste.

I pavidi e i timorati di dio possono ricoprire il piatto con un po' di prezzemolo fresco sminuzzato.

Se sentite puzza di stallatico allora vuol dire che avete esagerato col pecorino: pentitevene e recitate tre o quattrocento ave maria. Il piatto sarà ormai compromesso, ma almeno la vostra anima potrà aspirare ad un barlume di salvezza.

Come accompagnamento ci vedrei bene un bel bianco appena liquoroso tipo un Rapitalà (per l'ennesima volta) che ben si sposa con gli afrori caldi e inconsueti della preparazione.

Il piatto è consigliato a tutti tranne che a mio figlio (per ora: ne riparliamo fra un paio d'anni!).

Hai capito, appapà? :)

Da preparare ascoltando:

mercoledì 30 maggio 2007

Calderone di pesce bentonico

Sia lode alla chef Claire Nouvian per aver finalmente svecchiato gli ambienti della cucina internazionale proponendo una variante eccezionalmente ricca e articolata dell'arcinota zuppa di pesce (o cacciucco o bouillabaisse o ciambotta che dir si voglia).

E allora: via i gamberetti, salutate gli scampi, dite addio al palombo e all'umile grongo! Al diavolo le teste di triglia e quelle di cefalo, i merluzzetti, le mazzancolle e il fetentissimo scorfano...

Vi basteranno, semplicemente, delle quantità variabili di:

Come base, a parte la salsa di pomodoro fresco, è necessario un discreto quantitativo di brodo primordiale (privo di glutammato e alghe azzurre, mi raccomando).

Nel pentolone ove avrete preparato il sugo, lasciate macerare gli ingredienti per un periodo compreso tra i tre e i cinque miliardi di anni, mescolando energicamente allo scadere di ogni era geologica.

Mon dieu: les jeux sont fait!

Se il vostro pisciaiuolo di fiducia non dovesse riconoscere 'a voce' alcuni degli ingredienti su menzionati, potete sempre pensare di indicarglieli nell'ottimo specchietto riepilogativo che trovate qui di seguito:


NdA: Nel caso in cui risultiate tra quei pochi sfortunati che non digeriscono la Winteria Telescopa, allora potete sostituirla con l'ottima (ed economica) Mertensia Ovum, senza per questo rovinare la fine palatalità del piatto.

Da preparare ascoltando: Fishbone - Give a Monkey a Brain And He'll Swear He's the Center of the Universe (1993)

lunedì 28 maggio 2007

White Ragoo

Lo ammetto, il titolo è pretenzioso e fuorviante.

Primo, perchè è in inglese (lift yer handz all ye who know how to properly read - not daring 2 say 'understand' - some pidgin-Englischer words, aye! Me, I'm not).

Poi, perchè "ragù" (o meglio: "raù") si scrive così e non colì.

Infine, perchè non è un ragù nel senso vero e proprio del termine, visto che non ci vogliono 12 (dodici!) ore per la sua preparazione e non servono 852 (tanti!) tipi di carne diversa.

Basta un po' di sarciccia, di quella a punta di coltello o macinata grossa, non piccante e priva di semi di finocchio, come si usa a Mosca.

Astenersi luganeghe.

La sauciccia (o LE saucicce, a seconda di quanta ce ne si vuole mettere dentro) va spellata, spiaccicata con una forchetta e restituita per quanto possibile alla sua originaria costituzione 'a pezzettoni'.

Nel frattempo avrete avuto cura di soffriggere in poco olio un cipollotto sminuzzato (no: non ho detto scalogno) insieme ad un piccolo rametto di rosmarino fresco.

Contemporaneamente, lavate tre o quattro foglie di salvia e altrettante di alloro.

La prima, di solito, me la procuro in uno smart shop in via Oderisi da Gubbio (RM), anche se è di una varietà meno adatta alla cucina.

Il secondo, a parte prelevarlo dalla ormai smunta e rinsecchita corona con cui mi cinsi la testa (di minchia) aprés la laureà, lo trovo nel parcheggio del mio posto di lavoro o incastrato nel filtro dell'aria della mia macilenta Ford Orion bordeaux del '91, Khorakhanè edition.

Il gusto di quest'ultimo può rivelarsi un po' - come dire - pesantuccio: colpa del piombo tetraetile, forse.

Fregatevene, e prima che il soffritto sia solo un vago ricordo abbrustolito, aggiungete la sàvizicchia triturata e una gollata generosa di tavernello bianco o equivalenti in cartone.

Quando la salamella è a metà cottura (solo dio saprebbe come dedurlo: per interrogarlo, provate a chiamare uno di questi numeri e tenetemi aggiornato) si aggiunge al pasticcio un rametto di rosmarino per ciascun commensale, poi la salvia e quindi l'alloro.

Ho dimenticato di dirvi l'ovvio: e cioè, cuocete la pasta (media e contorta, tipo fusilli, se è fresca meglio ancora) , sinnò co' che v'o magnate 'sto schifo?

Se la saucisson è di buona qualità, manterrà un colorito chiaro senza sconfinare nel rosa o peggio nel fucsia fosforescente (come solo poche salsicce sanno fare, tipo quelle spacciate al TODIS).

La pasta, scolata, va mantecata rimestata nella pentola del soffritto e quindi ricoperta con una dose generosa di pecorino grattugiato.

Se proprio volete fare la figura dei gran signori, utilizzate i rametti soffritti di rosmarino (ricordate? uno per commensale, 'tacci loro!) per guarnire i piatti, badando a portarli a tavola con il dito pollice mollemente adagiato nel contenuto del piatto stesso ed il mignolo sollevato che neanche all'acme di una crisi da priapismo.

Al termine del pasto, e solo allora!, potrete dire a loro (i commensali) dove avete preso l'alloro e quanto gli verrà a costare - all'ora - il consulto di un buon nefrologo.

Spero abbiate avuto cura di abbinare al piatto un buon antigelo o al massimo il medesimo tavernello del soffritto, ché non si butta via niente.

Qualora necessitiate di un ulteriore ausilio alla pennica post-prandiale, potete abbinare al piatto qui descritto una lettura in lingua originale del mirabile Trattato sull'Astrolabio di Geoffrey Chaucer.

Da prepararsi ascoltando:

Craxi vostri.

venerdì 11 maggio 2007

La bandiera

Leggenda vuole che la pasta alla carbonara venisse consumata negli ipogei ottocenteschi dell'Italia centro-meridionale, durante le riunioni degli appartenenti alla società segreta della carboneria, da cui per consuetudine acquisì il nome.

Analogamente, la bandiera (nota al volgo anche come pasta rucola e patate) è piatto che lega le sue origini e la sua denominazione ad una società segreta, proto-repubblicana e anglo-pugliese (sulla falsariga della Giovine Italia di mazziniana memoria), di cui non è rimasta alcuna traccia se non le poche e scarne note biografiche del suo fondatore, il teologo luciferino Teodoro Lapatana [ Rocchetta Sant' Antonio (FG) 1828 - Isole Kerguelen (Territori Francesi Meridionali) 1885? ].

Il Lapatana ebbe a codificare questa ricetta durante la sua prigionia nel carcere di Corigliano Calabro, ove si trovò rinchiuso a scontare una pena di anni due (aggravata da una multa di sei baiocchi) per oltraggio al comune senso del reale.

Il patriottismo del Lapatana - unito alla sua smisurata arguzia - gli suggerirono il curioso stratagemma culinario per propugnare (essendo egli collaboratore coatto delle cucine del carcere coriglianense) il suo fervore patriottistico nei confronti della nascente nazione italiana (RIP).

Non si sa se tale opera propagandistica ebbe effettivamente successo: l'unica certezza è che da quel momento, come attestano senza tema di smentita le ricerche dello storico Abulafia, la feccia rivoluzionaria dell'ex regno borbonico volle farsi internare esclusivamente nel carcere di Corigliano, adducendo le più svariate scuse et fantasiose.

Chiunque voglia seguire le orme del Lapatana dovrà procurarsi:

  • patate bianche
  • rucola
  • pomodori da sugo (o polpa di pomodoro in scatola)
  • aglio
  • mezze penne rigate o penne lisce
Per dovere di documentazione riportiamo qui la ricetta originale, rinvenuta nel 1955 sotto forma di graffito policromo in un'intercapedine dei bagni del carcere coriglianense.

"...(chiunque) addesideri appropincuarsi all'arte preparatoria dell'abbandiera dovrà per prima cosa procedere al lesso delle pàtane, duopo averle pelate, lauate et trinciate in guisa di tocchetti.

Dette pàtane dovranno essere allessate in abbundante aqva salata e da essa venir traslate - ad avvenuta coquitura - tramite un mestolo a scolìno che lasci inalterato nel calderone il contenuto liqvido originario seppur restringiuto di misura.

Riportando l'aqva ad ebollitione, sarà dunque cura aggiungervi li maccaroni scelti, badando che questi appartenghino alla nobile familia de li maccaroni cuòrti ovvero medii.

Nel frattempo, all'intrasatta, le pàtane andranno mantenute càlide càlide in un bugliolo coperto.

Aiutandosi cum un autra tìella, soffriggiere l'allio in poco uoglio et dunque aggiungervi la conserva di pomidoro o li pomidoro da sarza precedentemente lessati e spellati e scamazzati.

Salare si vù plè.

A metà coquitura de li maccaroni, aggiungere nuovamente le pàtane lesse alla broda di cottura, seguitare con l'aggiunta de la rucola lauata e sminuzzata gruossolanamente.

A coquitura avvenuta, scolare il tutto mediante schiumarola, aggiungere la sarza di pomidoro preparata a parte et servire con una mano sul quore et l'isguardo ritto ritto verso il cielo.

Che lo appetito vi sia gagliardo.

Si nun risultate aggabbiati (NdT: 'carcerati') et quindi sottoposti a le restrizioni d'ordine manducatorio et bibitorio che tale situazione comporta, potreste pensare di accompaniare la sbobba a lo palato mediante capienti calici di cacc' 'e 'mmitt' de Lauceria.

Beati vobis, sicchè.

Per le medesime rationi potreste addivoler recoprire lo piatto cum freschi trucioli de riqotta stagionata et salata, ma ciò non vi sia d'obbligo.

Vogliate scusarmi, gentili attenditori, se conchiudo
qui la trattatione, che mi comincia lo turno alla lauanderia.

Coriliano di Calabria - giorno terzo de lo mese de Junio a.d. 1878

L.M.GfDP. S.E.

T. Lapàtaine"


Cos'altro aggiungere alla poesia delle parole di cui sopra? Ah, sì: facìteme sapè còmme ve viène!

Da preparare ascoltando:

[ Dedicato alla memoria di Giovanni Passannante ]

martedì 8 maggio 2007

Fave & Cicorie

Piatto tipico della tradizione contadina pugliese, di recente assurto con pieni onori al rango di raffinatezza culinaria e servito - udite udite! - financo nei ristoranti di un certo livello (i.e. quelli da evitare accuratamente).

Pur essendone estremamente goloso, cerco di limitarne al minimo l'assunzione visto che la sua preparazione è solita lasciare in cucina un caratteristico odore di piedi marci (tipo, per intenderci, superga-d'estate-senza calze).

Ma se si è avvezzi a mangiare taleggio e gorgonzola DOP (o a portare i fantasmini), non c'è problema.

Inoltre, non è un piatto che si può improvvisare visto che la pre-preparazione delle fave (secche) richiede almeno 6 ore, durante le quali queste vanno lasciate a bagno in acqua fredda che le copra bene.

Per continuare con l'acconciatura, bisogna seguire due passi distinti:

1. preparazione della cicoria
2. preparazione delle fave

Il passo 1) è banale: una volta lessate in acqua non salata le cicorie (anche surgelate vanno bene) si procede a saltarle in padella con aglio (tanto), olio (pugliese, hai visto mai!) e peperoncino piccante, preferibilmente fresco.

Il passo 2) è anch'esso banale stanti le premesse: in una pentola di coccio riempita d'acqua salata (poco) aggiungere le fave ravvivate e scolate dall'acqua del bagno di mezzanotte.

Quando l'ebollizione (su fiamma alta) è decisa, e le fave completamente sfaldate - occhio che ci vuole almeno mezz'ora! - recuperare una cucchiara di legno, un foglio di carta e una penna.

Il foglio di carta e la penna servono per annotare - dopo averlo scelto - il verso di rotazione rispetto al quale amalgamare le fave, onde mantenerlo inalterato sino a fine cottura.

Il perchè di questa consuetudine si perde nella notte dei tempi, ma se è vero che i Dogon del Mali conoscono la natura binaria di Sirio (indeterminabile ad occhio nudo), allora un terrazzano potrà ben aver avuto quel minimo di nozioni di tissotropia atte a codificare siffatto procedimento.

Mia moglie (pugliese DOC) mi suggerisce di mescolare il composto in senso orario: interrogata sul perchè, la tizia non rispose.

Ne deduco che

  1. il verso orario è più facile a ricordarsi (a meno che non si siano sempre usati orologi digitali)
  2. mia moglie è una strega
Il rimestìo, da compiersi ogni cinque minuti, termina finalmente quando le fave sono del tutto sfaldate e l'acqua di cottura completamente assorbita.

La consistenza del composto deve essere liquida ma decisa: tipo il mou contenuto nei Mars™) ma ben più granuloso.

L'importante è che nella purea non si individuino grossi grumi leguminosi. Nel qual caso, come già suggerito in occasione di un'altra ricetta, maledirsi abbondantemente.

Il tutto va servito unendo alla purea di fave, spiaccicata in un piatto piano, un grosso quantitativo di cicorie e condito con olio crudo (i.e. appena colato dall'ogliarulo).

Il piatto è consigliato:
  • ai favici antipatici di cui vogliate sbarazzarvi (a loro insaputa)
  • a chi non si formalizza di fronte ad un rutto di soddisfazione a fine pasto.
Al solito, viene meglio se accompagnato da un vino rosso di quelli che macchiano la bottiglia. A tal proposito consiglio il vino di produzione del padre di un mio amico originario di Ferrandina (MT), utilizzabile - qualora necessario - in vece della nafta agricola: lo potete trovare in distribuzione presso qualsiasi stazione Q8 della Basilicata.

Da preparare ascoltando: Tool - ænima (1996) - Stinkfist, per ovvi motivi.

Augh!

lunedì 7 maggio 2007

Pasta alla sarcazzo

Detta pasta è così chiamata perchè di origine ignota, anche se in alcuni testi risulta indicata come "pasta alla saudade" - vista la natura emotivamente melancolica di chi si accinge a prepararla - o "pasta alla Brachetti", a causa dell'innumerevole quantitativo di varianti - palesi et occulte - con cui si configura.

Di sicuro, chi è stato studente universitario fuori sede l'ha preparata almeno una volta, seppur inconsciamente, visto che per la sua preparazione si sfruttano tutte quelle cose (pasta esclusa) di cui ogni frigorifero, anche il più fètido, dispone di default.

Nell'ordine serviranno:

  • Due / tre spicchi d'aglio senza pellecchia
  • Capperi (sotto sale o sott'aceto è ugualo), diciamo un cucchiaio
  • Acciughe (sotto sale o sott'olio è ugualo l'istesso), diciamo cinque o sei di quelle piccole
  • Peperoncini (secchi o freschi è ugualo, anzi no, meglio freschi e possibilmente infernali)
  • Pomodorini (da evitare quelli grandi da insalata), diciamo un grappolo piccolo
Le varianti più raffinate prevedono anche:
  • Pan grattato ('nu pàr 'e cucchiàr 'ra cucina)
  • Pomodori secchi (sott'olio o meno, non importa: in ogni caso la loro presenza esclude i pomodorini)
  • Olive nere (chèlle ca' truàt)

e ovviamente pasta (se lunga da preferire nell'ordine vermicelli, spaghetti, linguine o - extrema ratio - bucatini, se corta fusilli, ziti, penne, mezze penne o rigatoni, se fresca cavatelli o trofie).

Mentre si acconcia la pasta com'è risaputo (acqua -> pentola -> fornello -> sale [POCO!] quando bolle), si prepara in padella il condimento, soffriggendo l'aglio e i peperoncini spezzettati a mezza fiamma in una buona dose d'olio extravergine d'oliva di prima spremitura a freddo (ma va bene pure l'olio scrauso accattato al supermarket, se non vi formalizzate).

Dopo un minuto che l'aglio & il fravaglio hanno cominciato a sfrigolare, si porta la fiamma al minimo e si aggiungono le acciughe (si acciungono :), lasciando la fiamma bassa per evitare che l'acqua contenuta in esse provochi scoppi d'olio bollente che neanche la presa di Gerusalemme.

Ogni tanto scamazzare (pron.: sh'camazza're) le acciughe con un cucchiaiaccio di legno bisunto, in modo da ridurle in poltiglia (evitando di fare lo stesso col cucchiaiaccio).

Tra una scamazzata e l'altra, lavare i pummaroli (chìlli peccerìlli, mi raccomando), tagliarli in quattro parti e conservarli in un piatto di plastica o equivalenti.

Quando delle acciughe non vi sarà più traccia in padella (perchè la loro combustione avrà prodotto una poltiglia oleosa e torbida ancorchè sapida, piccante & agliata) aggiungere i pomodorini tagliati.

A questo punto continuare la cottura alzando la fiamma, badando a che il composto praticamente lavico non si asciughi troppo. Nel qual caso, spegnere la fiamma e maledirsi.

Poco prima che la pasta sia pronta, diciamo 'na minuta, minuta e mezza, aggiungere i chiappari al condimento, mescolare e lasciar sfrucugliare n'altro po'.

Quando la pasta è pronta e scolata, riversarla nella padella ancora su fiamma media e revòtarla con decisione due, tre, quattro volte.

A questo punto, i patiti dell'esotico possono aggiungere un po' di pan grattato per amalgamare il tutto qualora dovesse risultare troppo oleoso (ma va?).

Altre varianti, dicevo, prevedono la sostituzione dei pomodorini freschi con quelli secchi (eventualmente sott'olio), da tagliuzzare e da aggiungere in concomitanza coi chiappari per evitare che poi brucino e sappiano di selvatico.

Il tutto non va impiattato ma servito rigorosamente nella stessa padella usata per cucinare il condimento e accompagnato da una familiare di Peroni ghiacciata (la Baffo d'oro si presta altresì egregiamente) bevuta a canna.

Nel caso in cui al desco sieda più di una persona allora:
  • Se siete in confidenza con il / lo / la / i / gli / le partner, magnate tutti nella stessa padella (con forchette diverse o con la stessa, poco cambia) schizzandovi allegramente d'olio e pangrattato.
  • In alternativa, adducete una scusa e cacciate di casa gli altri maledetti spilorci che sono venuti da voi ad approfittare di quel poco che avevate da mangiare senza manco portare il vino (che tanto non serve, ma questo lo sappiamo io e voi)
Buonappetito, e occhio all'alito!

PS: Ah, già, le olive nere! Snocciolatele (se le avete, capitalisti del menga!), sminuzzatele e aggiungetele al calderone dopo aver maciullato le acciughe.

UPDATE dell'ultima ora (sennò mia moglie s'incazza): per motivi di copyright, si avvisano i gentili lettori che questa ricetta è nota anche come "Pasta alla Stefania".

PPS: Ciao, amore! :D :x

mercoledì 11 aprile 2007

Cacio & Pepe

A quanto pare la pasta cacio & pepe è una specialità laziale, o più precisamente romana, che mi è stata presentata per la prima volta (anche se non servita) in un locale all'aperto in quel del ghetto romano.

In apparenza semplice se non semplicissimo da preparare, come ho potuto constatare a mie spese è in realtà piatto dalla difficilissima acconciatura.

Tutti sono capaci di prepararsi degli spaghetti in bianco da condire con il pecorino grattugiato ed un po' di pepe nero.

Pochi - a quanto si sente in giro - riescono a produrre IL capolavoro.

Il segreto è nell'amido rilasciato dalla pasta durante la cottura: scolare i maccheroni ha il non trascurabile effetto di disperderlo tutto (l'amido, nel lavandino) privando il piatto finale dell'amalgama necessario a differenziarlo da una qualsiasi pasta e formaggio preparata in cinque minuti perchè magari in casa non c'è altro...

Io ho sperimentato almeno due varianti per la sua preparazione. La prima, a singola pentola, e la seconda a pentola doppia.

Convenendo sul fatto che gli ingredienti sono sempre gli stessi (pasta lunga tipo spaghetti, bucatini o tonnarelli, pecorino romano grattugiato, pepe nero da macinare fresco), la preparazione è la seguente:

Prima variante (a pentola singola):

Spezzare a metà gli spaghetti o i bucatini o quant'altro (coi tonnarelli la vedo difficile).
Raccoglierli in una pentola larga da riempire d'acqua fredda sino a che la pasta non è coperta del tutto (ma non troppo). Aggiungere una manciata di sale grosso e porre su fiamma viva.

Non appena l'acqua comincia a bollire rimestare sempre più frequentemente in modo da evitare che la pasta s'attacchi alla pentola.

Continuare con la cottura, eventualmente badando a smorzare la fiamma se l'acqua comincia a schiumare troppo presto, assaggiando ogni tanto e rimestando con frequenza crescente.

Se la quantità d'acqua originaria si rivela adatta, si raggiungerà il punto di cottura della pasta (anche se dipende dai gusti è consigliata comunque una cottura al dente) nel momento preciso in cui l'acqua è quasi del tutto evaporata.

A questo punto smorzare la fiamma al minimo e cospargere di pecorino e pepe macinato, rimestando il tutto in modo da creare un'emulsione di acqua di cottura e formaggio tale da evitare il formarsi di grumi.

Travasare in una ciotola a bordo alto, possibilmente di coccio, e cospargere nuovamente di pecorino e - se è il caso - di ulteriore pepe macinato. De gustibus.

Come si sarà notato, non è necessario scolare la pasta: la ridotta quantità d'acqua con cui è stata riempita la pentola dovrà essere tale da garantire la cottura e al contempo il fondo necessario per l'amalgama che è la principale caratteristica di questo piatto.

E così facendo non serviranno nè preparazioni di acqua fredda e formaggio, o latte e formaggio o acqua di cottura prelevata prima della scolatura dei maccheroni* per raggiungere lo scopo.

In più, l'amido rilasciato dalla pasta durante la cottura (eliminato solo parzialmente dall'evaporazione) darà al piatto una sapidità impossibile da ottenere in altro modo.

Seconda variante (a doppia pentola o "del principiante"):

Si distingue dalla prima solo perchè prevede l'uso di due pentole distinte: nella prima pentola verrà posta una quantità d'acqua maggiore - rispetto alla prima variante - ma comunque MAI tanta quanta ne sarebbe necessaria per cuocere in modo classico la medesima tipologia di pasta. Nella seconda pentola sarà altresì posta una minima quantità d'acqua (non più di tre dita) da utilizzare per rimediare ai propri errori di inesperienza.

La fiamma va accesa viva sotto la prima pentola e a mezza forza sotto la seconda.

La presenza delle due pentole ha lo scopo di permettere una migliore gestione della cottura travasando dalla prima pentola (quella con la pasta) verso la seconda se per caso l'acqua presente in essa dovesse risultare eccessiva, o dalla seconda pentola verso la prima se ci si fosse sbagliati in senso opposto.

Il tutto deve procedere fino a che non si giunge ad una situazione simile a quella descritta al termine della prima variante (pasta ben cotta e poco fondo di cottura ancora presente nella pentola).

La seconda pentola, con il suo contenuto, può anche rivelarsi inutile se si sono fatte le cose con opportuno criterio.

La differenza tra le due varianti risiede nella diversa quantità di amido che può rimanere nel piatto ad opera finita. In ogni caso i risultati che si ottengono non sono molto dissimili.

Gratificazione immensa si ha, a mio parere, nel riuscire a cuocere dei bucatini al dente usando la prima variante senza aggiungere o togliere acqua in corso di preparazione.

Buona abbuffata.

*quelli elencati sono solo alcuni dei possibili rimedi tradizionalmente (!) utilizzabili per ottenere un amalgama solo in apparenza analogo a quello desiderato.