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mercoledì 25 luglio 2007

Bruschetta garganica


Visti i recenti eventi succedutisi a Peschici e dintorni, quale occasione migliore per presentare questa ricetta regionale - che comunque riscuote un grosso successo in tutto lo stivale - con buona pace di quei pochi e malmostosi ecologisti che hanno sempre da ridire su tutto.

Ingredienti:

  • le coste del Gargano
  • un uliveto
  • un manipolo di idioti criminali
  • accendini / fiammiferi / lanciafiamme q.b.
  • vento teso di scirocco
  • 45°c all'ombra
  • 0% di umidità
  • la protezione civile illanguidita dalle ferie
  • 5.000 turisti inconsapevoli
  • pochi e stremati Canadair d'anteguerra
Preparazione:

In una calda giornata di scirocco, accertarsi innanzitutto che si presentino le giuste condizioni di temperatura e umidità. Indi recarsi in un uliveto e dare principio ad un minuscolo focherello con i mezzi d'innesco che risultano più congeniali, accertandosi alfine che la fiamma si alimenti bene sino a diventare subito viva.

Confidando nell'endemica omertà dei villici, affidarsi alle correnti d'aria ed alla proverbiale reattività della protezione civile, badando che l'allegro scoppiettìo delle braci si diriga veemente verso le coste che dovranno necessariamente essere strapiene di bagnanti provenienti da ogni latitudine.

Aggiungere qualche spruzzo di Canadair tiepido, che lungi dall'inficiare la riuscita del piatto può fungere da lieve rinfrescante senza alcun impatto significativo sul gusto finale.

La pietanza, tipicamente estiva, va consumata quando la preparazione è ancora calda, condita d'una buona dose di polemiche stantìe e retorica cerchiobottista dannata (l'apostrofo è volutamente assente), per la gioia di giornalisti, speculatori edili e bracconieri.

Ottima l'abbinata con un vivace Inferno DOCG della Valtellina, sperando che la bottiglia non risulti troppo annacquata.

Se durante la preparazione doveste percepire penetranti afrori di lentisco, pino d'Aleppo, origano, ginepro ed altre erbacce tipiche della macchia garganica e mediterranea, non preoccupatevi più di tanto (siete pur sempre un manipolo di idioti criminali, no?) ma limitatevi ad annusarle con avidità: potrebbe trattarsi dell'ultima volta.

Da preparare ascoltando:

Disclaimer: le immagini d'accompagnamento (copyright repubblica.it) costituiscono un semplice suggerimento di presentazione per il piatto. La preparazione attuale può differire per particolari più o meno rilevanti, senza comunque discostarsi troppo da quanto mostrato.

venerdì 8 giugno 2007

'bbrasciòla di cavallo al zùco

Foggia è una città ben strana.

A Foggia molte cose perdono il loro vero nome per acquisirne un altro che poi, per consuetudine, si sostituisce al primo nell'immaginario collettivo (e spesso ignaro) sino a diventare più vero del vero.

Ad esempio, da tempo immemore (cioè da quando io ho facoltà di ricordare) a Foggia esiste una Piazza Libanese. Che a me, già da régazzino, mi pareva un nome inusuale: quando mai s'è vista una piazza aggettivata? Libanese, poi.

E perchè non Etiope o Tagìka?

Ma quando la sentivo appellare così financo da due solide e concrete casalinghe quali mia madre e mia nonna materna, beh, allora mi rassegnavo ai miei dubbi adolescenziali.

Poi all'improvviso ho scoperto quali fossero gli altri significati della parola libanese, in seguito quale fosse l'attività clandestina per cui la piazza omonima era famosa, e quindi - finalmente! - il perchè di quei capannelli di 'ggiuv'n uagghiùn' [0] assiepati nottetempo in Parco Volontari della Pace.

Più che ingenuo sono duro di comprendonio, lo ammetto.

Esistono anche altri casi eclatanti di perdite d'identità anagrafica, riferite solitamente alla toponomastica degli esercizi commerciali.

Il chiosco La ghiacciaia, sebbene così registrato alla camera di commercio, in realtà non è mai esistito in quanto tale: il suo nome originario è da sempre soppiantato nella memoria dei foggiani dal più familiare 'a cantìn' d' P'ppùzz' [1], universalmente nota a causa dei tappi di birra Raffo incastrati dagli avventori con inusitata perizia nell'asfalto innanzi all'ingresso, e per i rùtt' [2], sgàrrùtt' [2bis] e quàtt' chitàmmùrt [2ter] che prorompono dagli avventori stessi ad ogni minima occasione, anche la più inutile.

Poco distante, nascosto in una viuzza a senso unico di fianco all'Accademia di Belle Arti e non molto lontano dalla vecchia questura, giace un altro esempio caratteristico di tali identità commerciali multiformi: la taverna / pizzeria La grotta azzurra, nota ai foggiani - e dunque al mondo intero - con l'affettuoso appellativo di 'u 'nz'vùs [3].

Ed è proprio dall'Inzivoso [4] che ho potuto riassaporare una delle massime espressioni di quel caratteristico piatto foggiano della domenica di festa che è, per l'appunto, la 'bbrasciòla di cavallo al zùco.

Neanche a farlo apposta, a Foggia la 'bbrasciòla (braciola) non è quello che sembra.

Uno dice "braciola!" a Milano, e si vede servire un bel pezzo di carne alta un dito, ancora attaccata all'osso e cotta alla brace (da cui il nome).

Uno dice "braciola!" a Roma, e uguale.

A Napoli, idem.

A Foggia no: a Foggia la braciola è l'involtino di carne cotta nel sugo. Tenuta insieme a volte da un doppio filo di cotone, a volte da stuzzicadenti o spiedini di metallo, e comunque farcita d'aglio, prezzemolo, formaggio e pepe. Presso i più nobbbili, anche di prosciutto cotto e omelette (la frittatina, certo!).

Per prepararla non occorre particolare perizia ma gli ingredienti giusti, quelli sì.

Nell'ordine:

  • agghij' (aglio)
  • ogghij' (olio)
  • sàrz' d'pùmmadòr' (salsa di pomodoro)
  • p'trùsìn' (prezzemolo)
  • p'cùrin' (formaggio saporito)
  • pèp' nìr' (pepe nero macinato)
  • carn' d'cavall' p'ì 'bbrasciòl' (fettine di carne di cavallo tagliate a medio spessore)
  • carna gràss' p'anzapurì 'u zùg' (carne meno pregiata, tipo maiale o muscolo, tagliata a pezzi grossi, utile per dare un fondo più robusto al sugo)
Parte dell'aglio va tritata insieme al prezzemolo, quindi mischiata al formaggio grattugiato ed al pepe e utilizzata per farcire le fettine di carne, disponendo il composto ad uno degli estremi della fettina, in modo che arrovogliando quest'ultima su sè stessa e cominciando proprio da tale estremo, la farcitura arrivi a trovarsi infine al centro della braciola.

Indi si procede alla chiusura dell'opera utilizzando il mezzo più consono (cotone, stuzzicadenti o spiedini). Mia nonna, per inciso, prediligeva il cotone. L'Inzivoso, invece, gli stuzzicadenti di legno, più facili da riciclare e quindi tendenzialmente meno onerosi.

Nel frattempo, in una pentola abbastanza alta, si sarà fatto soffriggere l'aglio in olio sufficientemente abbondante, onde aggiungere prima i pezzi di carne d'accompagnamento e quindi le braciole.

Non appena la carne comincia a lasciare tracce abbrustolite sul fondo della pentola, si abbassa la fiamma e si attende un minuto che la temperatura dell'olio sia scesa prima di versare la salsa di pomodoro: se quest'ultima è fatta in casa clandestinamente, tanto meglio.

Si ravviva quindi la fiamma, si sala il tutto e ci si aggiunge qualche gambo di prezzemolo tanto per gradire.

La cottura deve essere lunga e, viene da sé, la fiamma non troppo alta.

Quando il sugo raggiunge la consistenza del purè di patate, allora è indizio che la cottura è ultimata. Se si attacca un po' alla pentola, male non fa.

Le braciole vanno servite per prime, immerse in un tripudio di salsa, quindi la carne d'accompagnamento, se la vostra panza conserva ancora un qualche anfratto libero.

Anche perché per gli avventori de l'Inzivoso il piatto in questione non è mai la prima portata, ma spesso segue a ruota un'altra delle famose delicatessen della casa, ovvero la pizza a bordo alto farcito di ricotta e salsiccia (il bordo!).

Per molti esseri umani, l'accoppiata è letale.

Ormai sono anni che non vivo più in pianta stabile a Foggia. Quando ci torno, sporadicamente, sono sempre troppo impegnato a salutare amici e parenti - quei pochi - per potermi dedicare ad una sana devastazione gastrointestinale come quando ero fanciullo.

Voci preoccupate che hanno raggiunto noi foggiani emigrati all'estero ci dicono che 'u 'nz'vùs' sia chiuso da un po', a causa di problemi familiari riscontrati dal signor Vittorio (il titolare del locale nonchè dell'appellativo di Inzivoso) e non ancora risolti.

Alcuni, invece, sostengono che il locale sia stato chiuso dai NAS, che durante un'ispezione di controllo pare abbiano visto uscire dalla cucina una fila di verruche in ciàvatte.

Quale che sia la verità, si tratta comunque di una perdita incommensurabile per la gastronomia di un certo livello (il più basso).

Una prece.

Da preparare ascoltando:



Note del Traduttore:

[0] Scansafatiche
[1] "La cantina di Giuseppe"
[2] Rutti
[2bis] Rutti fragorosi
[2ter] Bestemmie e contumelie indirizzate ai familiari morti del destinatario
[3] "Il lurido"
[4] "Il lurido", secondo la dizione adottata dal foggiano verace che cerca inutilmente di parlare in itaGliano

venerdì 11 maggio 2007

La bandiera

Leggenda vuole che la pasta alla carbonara venisse consumata negli ipogei ottocenteschi dell'Italia centro-meridionale, durante le riunioni degli appartenenti alla società segreta della carboneria, da cui per consuetudine acquisì il nome.

Analogamente, la bandiera (nota al volgo anche come pasta rucola e patate) è piatto che lega le sue origini e la sua denominazione ad una società segreta, proto-repubblicana e anglo-pugliese (sulla falsariga della Giovine Italia di mazziniana memoria), di cui non è rimasta alcuna traccia se non le poche e scarne note biografiche del suo fondatore, il teologo luciferino Teodoro Lapatana [ Rocchetta Sant' Antonio (FG) 1828 - Isole Kerguelen (Territori Francesi Meridionali) 1885? ].

Il Lapatana ebbe a codificare questa ricetta durante la sua prigionia nel carcere di Corigliano Calabro, ove si trovò rinchiuso a scontare una pena di anni due (aggravata da una multa di sei baiocchi) per oltraggio al comune senso del reale.

Il patriottismo del Lapatana - unito alla sua smisurata arguzia - gli suggerirono il curioso stratagemma culinario per propugnare (essendo egli collaboratore coatto delle cucine del carcere coriglianense) il suo fervore patriottistico nei confronti della nascente nazione italiana (RIP).

Non si sa se tale opera propagandistica ebbe effettivamente successo: l'unica certezza è che da quel momento, come attestano senza tema di smentita le ricerche dello storico Abulafia, la feccia rivoluzionaria dell'ex regno borbonico volle farsi internare esclusivamente nel carcere di Corigliano, adducendo le più svariate scuse et fantasiose.

Chiunque voglia seguire le orme del Lapatana dovrà procurarsi:

  • patate bianche
  • rucola
  • pomodori da sugo (o polpa di pomodoro in scatola)
  • aglio
  • mezze penne rigate o penne lisce
Per dovere di documentazione riportiamo qui la ricetta originale, rinvenuta nel 1955 sotto forma di graffito policromo in un'intercapedine dei bagni del carcere coriglianense.

"...(chiunque) addesideri appropincuarsi all'arte preparatoria dell'abbandiera dovrà per prima cosa procedere al lesso delle pàtane, duopo averle pelate, lauate et trinciate in guisa di tocchetti.

Dette pàtane dovranno essere allessate in abbundante aqva salata e da essa venir traslate - ad avvenuta coquitura - tramite un mestolo a scolìno che lasci inalterato nel calderone il contenuto liqvido originario seppur restringiuto di misura.

Riportando l'aqva ad ebollitione, sarà dunque cura aggiungervi li maccaroni scelti, badando che questi appartenghino alla nobile familia de li maccaroni cuòrti ovvero medii.

Nel frattempo, all'intrasatta, le pàtane andranno mantenute càlide càlide in un bugliolo coperto.

Aiutandosi cum un autra tìella, soffriggiere l'allio in poco uoglio et dunque aggiungervi la conserva di pomidoro o li pomidoro da sarza precedentemente lessati e spellati e scamazzati.

Salare si vù plè.

A metà coquitura de li maccaroni, aggiungere nuovamente le pàtane lesse alla broda di cottura, seguitare con l'aggiunta de la rucola lauata e sminuzzata gruossolanamente.

A coquitura avvenuta, scolare il tutto mediante schiumarola, aggiungere la sarza di pomidoro preparata a parte et servire con una mano sul quore et l'isguardo ritto ritto verso il cielo.

Che lo appetito vi sia gagliardo.

Si nun risultate aggabbiati (NdT: 'carcerati') et quindi sottoposti a le restrizioni d'ordine manducatorio et bibitorio che tale situazione comporta, potreste pensare di accompaniare la sbobba a lo palato mediante capienti calici di cacc' 'e 'mmitt' de Lauceria.

Beati vobis, sicchè.

Per le medesime rationi potreste addivoler recoprire lo piatto cum freschi trucioli de riqotta stagionata et salata, ma ciò non vi sia d'obbligo.

Vogliate scusarmi, gentili attenditori, se conchiudo
qui la trattatione, che mi comincia lo turno alla lauanderia.

Coriliano di Calabria - giorno terzo de lo mese de Junio a.d. 1878

L.M.GfDP. S.E.

T. Lapàtaine"


Cos'altro aggiungere alla poesia delle parole di cui sopra? Ah, sì: facìteme sapè còmme ve viène!

Da preparare ascoltando:

[ Dedicato alla memoria di Giovanni Passannante ]

martedì 8 maggio 2007

Fave & Cicorie

Piatto tipico della tradizione contadina pugliese, di recente assurto con pieni onori al rango di raffinatezza culinaria e servito - udite udite! - financo nei ristoranti di un certo livello (i.e. quelli da evitare accuratamente).

Pur essendone estremamente goloso, cerco di limitarne al minimo l'assunzione visto che la sua preparazione è solita lasciare in cucina un caratteristico odore di piedi marci (tipo, per intenderci, superga-d'estate-senza calze).

Ma se si è avvezzi a mangiare taleggio e gorgonzola DOP (o a portare i fantasmini), non c'è problema.

Inoltre, non è un piatto che si può improvvisare visto che la pre-preparazione delle fave (secche) richiede almeno 6 ore, durante le quali queste vanno lasciate a bagno in acqua fredda che le copra bene.

Per continuare con l'acconciatura, bisogna seguire due passi distinti:

1. preparazione della cicoria
2. preparazione delle fave

Il passo 1) è banale: una volta lessate in acqua non salata le cicorie (anche surgelate vanno bene) si procede a saltarle in padella con aglio (tanto), olio (pugliese, hai visto mai!) e peperoncino piccante, preferibilmente fresco.

Il passo 2) è anch'esso banale stanti le premesse: in una pentola di coccio riempita d'acqua salata (poco) aggiungere le fave ravvivate e scolate dall'acqua del bagno di mezzanotte.

Quando l'ebollizione (su fiamma alta) è decisa, e le fave completamente sfaldate - occhio che ci vuole almeno mezz'ora! - recuperare una cucchiara di legno, un foglio di carta e una penna.

Il foglio di carta e la penna servono per annotare - dopo averlo scelto - il verso di rotazione rispetto al quale amalgamare le fave, onde mantenerlo inalterato sino a fine cottura.

Il perchè di questa consuetudine si perde nella notte dei tempi, ma se è vero che i Dogon del Mali conoscono la natura binaria di Sirio (indeterminabile ad occhio nudo), allora un terrazzano potrà ben aver avuto quel minimo di nozioni di tissotropia atte a codificare siffatto procedimento.

Mia moglie (pugliese DOC) mi suggerisce di mescolare il composto in senso orario: interrogata sul perchè, la tizia non rispose.

Ne deduco che

  1. il verso orario è più facile a ricordarsi (a meno che non si siano sempre usati orologi digitali)
  2. mia moglie è una strega
Il rimestìo, da compiersi ogni cinque minuti, termina finalmente quando le fave sono del tutto sfaldate e l'acqua di cottura completamente assorbita.

La consistenza del composto deve essere liquida ma decisa: tipo il mou contenuto nei Mars™) ma ben più granuloso.

L'importante è che nella purea non si individuino grossi grumi leguminosi. Nel qual caso, come già suggerito in occasione di un'altra ricetta, maledirsi abbondantemente.

Il tutto va servito unendo alla purea di fave, spiaccicata in un piatto piano, un grosso quantitativo di cicorie e condito con olio crudo (i.e. appena colato dall'ogliarulo).

Il piatto è consigliato:
  • ai favici antipatici di cui vogliate sbarazzarvi (a loro insaputa)
  • a chi non si formalizza di fronte ad un rutto di soddisfazione a fine pasto.
Al solito, viene meglio se accompagnato da un vino rosso di quelli che macchiano la bottiglia. A tal proposito consiglio il vino di produzione del padre di un mio amico originario di Ferrandina (MT), utilizzabile - qualora necessario - in vece della nafta agricola: lo potete trovare in distribuzione presso qualsiasi stazione Q8 della Basilicata.

Da preparare ascoltando: Tool - ænima (1996) - Stinkfist, per ovvi motivi.

Augh!