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lunedì 24 settembre 2007

Bentagliati di farina di grano duro e uova, con purea di pesce azzurro in salsa di liliacea, erbe aromatiche e poivre noir a velo

Bònjour,

questo post è un'evidente giuoco scherzoso (gli inglesi direbbero "pun", i francesi "pastiche", gli spagnoli "olè!") dedicato a tutti quei fini connoisseurs, un po' masochisti, che preferiscono cibarsi di piatti per i quali ci voglia più tempo a pronunciarne il nome che a consumarne le scarne porzioni servite presso i ristoranti più à la page.

Di solito, presso tali ristoteche, l'importo del conto risulta direttamente proporzionale al numero di parole che compongono i titoli delle libagioni, ovvero inversamente proporzionale alla grammatura delle medesime.

La popolazione culinar-blogghesca, soprattutto italiana, è strapiena di aspiranti cuochi et professionisti conclamati che ritengono sia un dovere descrivere la preparazione di un piatto nel nome del piatto stesso, realizzando così una sorta di pangramma assolutamente superfluo e inconcludente a fini gastronomici, ma che fa tanto scena.

Se nella preparazione vengono convogliati ingredienti che non si troverebbero manco nel gabinetto del dottor Caligari (es: il tamarindo) tanto meglio, secondo loro.

E l'uso del francioso risulta, per tali apprendisti stregoni, funzionale quanto l'aceto balsamico sulla burrata.

Giusto per chiarire come stanno qui le cose, questo post dovrebbe servire a preparare - qualora lo si desiderasse davvero - uno strepitoso piatto di cucina 'povera', che - in barba all'inflazione galoppante più di un'orda di cavalieri tartari lanciati alla conquista dell'Europa - mantiene tutt'ora le sue caratteristiche di economicità e sapidità.

In pratica, se non ci siete arrivati, stiamo parlando dei troccoli con le alici, ovvero di un piatto parente alla lontana della fantomatica pasta con le sarde di tradizione trinacriense.

Per prepararlo vi servono:

  • farina di grano duro
  • uova (una ogni etto abbondante di farina)
  • alici fresche sfilettate
  • qualche spicchio d'aglio
  • olio d'oliva
  • prezzemolo fresco
  • pepe nero
Con la farina e le uova va preparato il classico intruglio per la pasta fatta in casa. Se non sapete come fare potete:
  1. comprarla già fatta (ottima soluzione, a meno di non rivolgersi a quelle abominevoli preparazioni industriali vendute sotto vuoto nei supermercati)
  2. cercare su Google
Qualora decidiate di farla da voi seguendo l'opzione 2) allora dovete munirvi di un troccolaturo, ovvero un mattarello zigrinato che permette di tagliare la sfoglia in sottili strisce (in realtà prismi a base rettangolare) noti come troccoli o spaghetti alla chitarra.

Per il resto, l'aglio schiacciato e scamiciato (mi raccomando!) va fatto soffriggere in abbondante olio d'oliva e quindi estratto prima che il suo colorito cominci a diventare troppo scuro.

Nel frattempo avrete sfilettato e quindi tritato grossolanamente le alici FRESCHE, privandole altresì della coda e della testa.

Sulla scelta delle alici la questione è meno semplice di quanto si creda.

Presso il mercato Macaluso (sotto casa mia) ci sono due pescherie situate una al fianco dell'altra: la prima è gestita da una combriccola di tipi loschi, quasi sicuramente ex-galeotti condannati per reati contro il patrimonio, che probabilmente racimola il pesce che smercia prelevandolo dal fondo dei camion incustoditi utilizzati per il trasporto degli scarti ittici.

La seconda, invece, è amorevolmente accudita da una tenera sòra romanesca, ex sarta della casa reale, che per vocazione si è convertita all'agroittico.

Quando la signora non è impegnata nel retrobottega a mostrare ai suoi aiutanti (quasi sempre nordafricani) il modo migliore per maneggiare l'anguilla e il capitone, si dimostra venditrice accorta e coscenziosa.

Orbene, quando mi sono recato in cerca di alici ho come al solito sondato il terreno presso la prima e dunque la seconda pescheria.

Le alici erano presenti su entrambi i banchi: nel primo caso, il colorito nero-verdastro e il prezzo sui 2 (due!) euro al kg mi ha fatto desistere immantinente. Va bene tenere in conto il portafoglio, ma la vita è pur sempre un bene prezioso, quasi più del mattone.

Nel secondo caso (benedetta signora!) le alici - seppur morte - parevano ancora intente a guizzare nel profondo dei freddi mari di provenienza. Comunque diffidente, mi sono risolto a controllare con attenzione e ho constatato l'assenza di un qualsivoglia Lino Banfi sotto la cassetta, come mirabilmente esemplificato in una delle memorabili scene de "Al bar dello sport".





6 Euro al kg, seppur prossimo alla soglia massima stabilita dal mio inconscio, mi è sembrato in fin dei conti un prezzo onesto, tenendo conto che la sfilettatura delle alici è stata poi eseguita in loco liberandomi da un compito altresì gravoso.

Diciamo che 400 grammi di alici per due persone possono andar bene, a meno che non si voglia - giustamente - strafare. Fate vobis (magno gaudio).

Tornando alla preparazione del piatto, le alici (pulite, sfilettate, sminuzzate) vanno fatte soffriggere e al contempo ulteriormente maciullate con una forchetta in modo da sbriciolarsi il più possibile.

Nel contempo, avrete cura di cuocere la pasta al dente per poi scolarla e saltarla nella padella di cottura delle alici su menzionate.

Per terminare la preparazione, è necessario cospargere il composto pasta + condimento con abbondante pepe nero e prezzemolo fresco tritato.

Alla fine non rimane che servire il tutto per la gioia degli astanti e del cuoco-demiurgo.

A proposito delle alici, ho avuto conferma della loro bontà quando la mia gatta (Audrey, un meticcio femmina di circa cinque anni, inusuale incrocio tra un felino ed un cane da compagnia) ha cominciato a gironzolare nervosa e languida in prossimità del secchio della spazzatura, ove avevo depositato i resti della preparazione in attesa di rivenderli sottocosto ai tizi della prima pescheria.

Lei che non si scomodava in tali manifestazioni di gioiosa felinità manco di fronte a vari capi di salsicce fresche lasciate incustodite alla mercè dei suoi (pochi, in verità) dentini affilati...

Completa la preparazione e l'impiattatura (ma 'dde che? I troccoli l'amo magnati direttamente nella padella!) una sacrosanta bottiglia di Locorotondo d.o.c. servito freddo, che con i suoi aromi fruttati & pugliesi funge da controaltare naturale ad una portata così delicata ed eterea.

Un piccolo addendum per chiarire ogni dubbio in merito alla preparazione bricolage dei troccoli fatti in casa: lo strumento infernale da adoperare a tale scopo, ovvero il troccolaturo (in originale: "trocc'latùr") non va assolutamente confuso con il laganaturo (in originale: "lag'natùr", omaggiato nel nome da uno dei componenti della seminale band di grezz-metal foggiana "Immortadell"), ontologicamente deputato alla preparazione di tagliatelle e làgane.

Mi raccomando!

Concludo ringraziando quella santa donna di mia moglie per avermi proposto originariamente questa preparazione d'alta cucina che Bocuse sta ancora a rosicà.

Il piatto è consigliato a chi:
  • vorrebbe andare almeno una volta a cena presso il roof garden dell'Hassler Villa Medici, ma non ha mai le mutande adatte
  • si è fatto serigrafare la faccia di Gualtiero Marchesi sulle pareti interne dei sanitari
Da preparare ascoltando:
  • Alice in Chains - Would? (Dirt - 1992)
  • Immortadell - Vafammòcc' a mamm't (The age of grezz metal - 2006)
  • Alice - La bellezza stravagante (Viaggio in Italia - 2003)

giovedì 19 luglio 2007

Dogmaclastìa

Ovvero:

"Le regole sono come le ginocchia degli attaccanti avversari: esistono solo per essere infrante." (Hans-Peter Briegel)

In ambito gastronomico-culinario (tra tutti i possibili contesti di discussione, quello che decisamente genera i fomenti più astiosi) esistono una serie di precetti che - secondo il senso comune - NON vanno mai violati, pena le occhiate di disapprovazione dei vostri ospiti.

Tali occhiatacce sono generalmente accompagnate da una sequela di balloon da fumetto che recitano cose del tipo:

  • "Ai piatti di pesce va abbinato SOLO il vino bianco!"
  • "ll succo di limone va aggiunto POCO PRIMA di servire il piatto, sennò si ossida!"
  • "Nel soffritto non si usa MAI la cipolla, bensì lo scalogno!"
  • "L'aglio va lasciato SEMPRE incamiciato!"
  • "Il dado da brodo è ASSOLUTAMENTE da evitare!"
  • "Il sale grosso deve essere RIGOROSAMENTE integrale!"
  • "L'olio extravergine d'oliva DEVE NECESSARIAMENTE essere di prima spremitura a freddo e possibilmente lavorato in un frantoio del neolitico!"
  • "GIAMMAI condire funghi e pesce con il formaggio!"
e altre minchiate d'ordinanza.

Ora, io che di cucina ne capisco poco meno che di fisica quantistica ("...mi scusi un attimo, signor Planck, ma in questo momento non posso darle troppa attenzione: l'aspetto domani sera in Via Panisperna per quel convivio cui accennava Niels...") mi sono sempre curato poco di tali dogmi e ho sempre anteposto la curiosità e il gusto personale a qualsiasi tipo di precetto talebano.

Ecco perchè mi è spesso capitato di proporre, in cucina, l'equivalente culinario di un bestemmione a piena gola sotto il baldacchino del Bernini in San Pietro, un rutto fragoroso al culmine del pathos durante la rappresentazione - al Piccolo! - dell'Otellas di Nekrosius, un romanzo di Baricco in libreria, un'auto bianca e azzurra targata L'Aquila e parcheggiata davanti al Roma Club di Testaccio, oppure (gasp!) pagare anzichè essere pagati per andare a vedere un film di Muccino.

Alcune di queste blasfemìe, lungi dall'essermi state ispirate dall'oppio o da una cassoeula consumata a tarda sera, sono il frutto di sporadici e temerari tentativi di provare qualcosa di nuovo nelle rare volte in cui mi è capitato di andare a cena fuori.

Ed è proprio durante una di queste escursioni extramurarie che mi sono imbattuto nella Trattoria del Mare, ad Anzio (RM), un piccolo locale apparentemente senza pretese che giace spaparanzato sul molo del porto commerciale a pochi metri dall'imbarco dei traghetti per Ponza.

La trattoria è gestita da alcuni giovani anziani, e sulle prime non pare proporre nulla di particolarmente innovativo: solito trionfo di antipasti di mare (almeno 15 tipi diversi in un'unica voce sul conto), soliti primi ben curati e secondi altrettanto.

Dei vini non so dire: di lì a poco avrei dovuto guidare su strade parzialmente ignote, e non ho potuto apprezzare - pertanto - la possibilità di tracannare il mio solito litro e mezzo di Gotto d'Oro, da cui il mio disinteresse.

Orbene è stato con spavalderia mista ad un certo grado di ingenuità che ho osato ordinare degli spaghetti ai moscardini. La cameriera mi sorprende chiedendomi: "Ce lo vuole il formaggio sopra? Perchè sa, noi siamo soliti aggiungerci un po' di pecorino romano...".

"Come no!" è stata la mia poco convinta risposta, al punto che la cameriera mi richiede conferma, che giunge alfine positiva e un po' più decisa.

Questo il preambolo.

All'arrivo del piatto, in realtà una vera e propria còfana larga almeno quaranta centimetri e rorida di spaghetti e condimento, mio figlio (due anni e mezzo e nel pieno di una fase di avversione ferina nei confronti di tutto ciò che ha natura casearia) prorompe - a narici tappate - in un candido "Ghe bùzza!".

In effetti l'odore di pecorino misto al sugo di moscardini risulta abbastanza penetrante e, in qualche modo, estremamente stuzzicante all'appetito.

Fatto sta che la còfana si svuota nel giro di pochissimi minuti con somma soddisfazione mia, di mia moglie e di mio figlio, che può dunque riaprire all'aria le sue tenere narici.

Chiedo lumi alla cameriera che ci ha servito e scopro che il cuoco è uso aggiungere il pecorino in modica quantità (un cucchiaio) solo all'atto della rimestatura della pasta con il condimento.

Terminata la cena, gironzolo un po' per agevolare la digestione (ma sarei dovuto tornare a Roma a piedi per ottenere un qualche beneficio epatico) e mi accingo al rientro con in testa il buzzo di scrivere un post su questo evento.

Il conto è risultato onesto, soprattutto tenendo conto della grandeur assiro-babilonese delle porzioni, il servizio preciso e simpatico e la location suggestiva, con le barche ormeggiate a fare da quinta ai tavolini all'aperto.

Unico neo, la frequentazione media a base di cùmenda del litorale, culminata con l'arrivo di un fantomatico e totipotente Ingegnere (no, non io!) che parcheggia praticamente all'interno del locale come fosse il suo garage privato.

Tornando al piatto, questo andrebbe preparato - ad intuito - facendo saltare in padella due spicchi d'aglio insieme ai moscardini puliti e lavati.

Quando i moscardini cominciano a cambiare colore e a restringersi un poco, andrebbe aggiunto un mezzo bicchiere di vino bianco (ma anche la Sprite o il barbera d'Asti possono andar bene visto l'andazzo del post) e, dopo qualche minuto necessario a far cagliare il tutto, anche una goccia di concentrato di pomodoro, pepe nero macinato ed una modica quantità di pachino sminuzzati.

A parte (ma va?) cuocere la pasta, preferibilmente spaghettoni dal calibro delle gomene da diporto, da scolare al dente.

Quando pasta e condimento saranno pronti, unirli insieme ad un cucchiaio generoso di pecorino romano (che poi fanno in Sardegna, ma è un'altra storia) indi far saltare l'amalgama in padella con quel magnifico movimento di polso che fa tanto chèf d'alta scuola, ovvero onanista incallito ed un po' triste.

I pavidi e i timorati di dio possono ricoprire il piatto con un po' di prezzemolo fresco sminuzzato.

Se sentite puzza di stallatico allora vuol dire che avete esagerato col pecorino: pentitevene e recitate tre o quattrocento ave maria. Il piatto sarà ormai compromesso, ma almeno la vostra anima potrà aspirare ad un barlume di salvezza.

Come accompagnamento ci vedrei bene un bel bianco appena liquoroso tipo un Rapitalà (per l'ennesima volta) che ben si sposa con gli afrori caldi e inconsueti della preparazione.

Il piatto è consigliato a tutti tranne che a mio figlio (per ora: ne riparliamo fra un paio d'anni!).

Hai capito, appapà? :)

Da preparare ascoltando:

lunedì 18 giugno 2007

Sgombro coatto

Negli ultimi otto anni il prezzo della casa a Roma è per lo meno triplicato (fonte: UMVDC [1]).

Ora capisco perchè da giovane guardavo con simpatia e tenerezza a quelle garbate realtà milanesi - Roma non era ancora neppure un pensiero minuzzolo nella mia capa santa - di occupazione abusiva e pacifica quali il COA T28 in Via dei Transiti o il CSOA Leoncavallo e le sue infinite migrazioni.

Poi capita che uno legge gli annunci immobiliari dell'agenzia sotto casa (ma quale casa?) e allora si prospettano due (2!) sole possibilità:

  1. denunciare i titolari dell'agenzia presso l'Ente di Protezione della Lingua Italiana (terrazzatissimo? cieloterra? pluribalconato? Come gli viene!?!?!)
  2. denunciare i titolari dell'agenzia presso la Camera di Commercio (che fanno, lasciano ancora i prezzi in Lire? 595.000 per un 90mq in via Cardano: ci dev'essere un refuso da qualche parte, forse mancano due o tre zeri...)
  3. this option intentionally left blank
Ed è proprio riflettendo su tali temi, oltre che tornando col pensiero ad un mio vicino, moroso laureato (no, non era un fidanzato modello ma un pidocchio che non pagava la pigione manco se gli staccavano le unghie dei piedi a tenagliate) che mi si è presentata l'ispirazione per questa pietanza.

Al lettore sarà chiaro quanto prima il perchè del nome.

Non può sfuggire, com'è ovvio, l'ingrediente principale: lo sgombro, o come lo chiamano a Roma e dintorni, il maccarello.

Curioso come in ambito agroalimentare il genio italico abbia fatto propri alcuni termini anglosassoni, storpiandoli (in)consapevolmente e trasformandoli nelle caricature autarchiche di sé stessi: è così che il mackerel si trasforma in maccarello, la herring in aringa e lo stockfish in stoccafisso. Ma anche la beef steak in bistecca, per par condicio.

Poi si deridono gli emigranti che Broccolìno al posto di Brooklyn. Mah.

Fine dello sfogo (un grazie alla mia personale crema contro gli eczemi).

Lo sgombro (uno per commensale) è meglio procurarselo da un pescivendolo di fiducia se non si vuole fare la fine di quello chef francese cui asportarono d'urgenza parte dell'intestino a causa di un infezione da anisakis (mortacci!). Altri riferimenti qui, qui e qui.

In alternativa, si può eviscerare *bene* l'animale prima che un chirurgo sia costretto a fare lo stesso con noi.

Meglio ancora lasciare a riposo il simpatico pesciolino per
  • 96 ore a -15° C, oppure
  • 60 ore a -20° C, oppure
  • 12 ore a –30° C, oppure
  • 9 ore a -40° C
in modo da azzerare le funzioni vitali del fastidioso nematode (e non sto parlando di vostra suocera).

Ah, già, la cottura in forno risolve altrettanto bene il problema... :)

Ce l'avete il coriandolo? Bene: farciteci ciascuno sgombro - sventrato - unitamente ad uno spicchio d'aglio. Diciamo che un cucchiaino di coriandolo cadasgombro può andar bene. E anche un filo d'olio e un briciolo di sale grosso.

Avvolgete ciascun maccarello in un foglio d'alluminio e infornatelo per una ventina di minuti almeno: sarà la vostra esperienza pluriennale nel coitus interruptus a indicarvi il momento più opportuno per tirare fuori il pesce prima che sia troppo tardi.

Ora comincia il bello.

Ciascuno sgombro va lasciato raffreddare quindi - nell' ordine - spellato, spinato e sminuzzato grossolanamente, senza curarsi della presenza di eventuali semi di coriandolo rimasugli della cottura.

Se durante la spinatura doveste imbattervi in strane larve filiformi di circa 1 - 3 cm, tipo queste, accertatevi almeno che siano morte.

Indi bisogna depositare i pezzettoni di sgombro in una zuppiera, e infine aggiungere cipolle affettate a spicchi grossi, capperi sott'aceto, olive nere e succo di limone. Completa il tutto una pudica innaffiata di aceto di mele (perché sì) e un filo d'olio crudo.

Per contrapasso il composto va lasciato marinare in frigo per qualche ora e rimestato ogni tanto: se nel farlo vi scappa di assaggiare, peccato non è.

Come accompagnamento è d'uopo una salva di Dreher 66cl (ghiacciata): dopotutto, se lo sgombro dev'essere coatto è meglio che lo sia fino in fondo.

That's all, folks.

Il piatto è consigliato se:
  • siete in ritardo con l'affitto e avete a cena il vostro padrone di casa imbufalito. In tal caso non curatevi affatto della provenienza del pesce e del suo grado di cottura (anzi!) quindi approntate una scusa fantasiosa che vi permetta di sottrarvi all'obbligo di assaggiare il medesimo piatto senza apparire maleducati ("No, io non lo mangio, grazie! Proprio oggi mi è venuta la febbre di Marburg e, come può immaginare, ho lo stomaco un po' in subbuglio...").
  • amate Tom Waits e vi ha sempre affascinato il verso di quella sua canzone [2] in cui blatera "(...) it rained mackerel, it rained trout (...)": verosimilmente, quando la scrisse, il bardo di Pomona si trovava a passare sotto il balcone di un improvvido cuoco che si era cimentato senza successo in questa stessa ricetta.
  • digerite anche i sassi, ma avete voglia di qualcosa di più.
Da prepararsi ascoltando:
  • il vostro stomaco che brontola
  • il vostro sesto senso che vi dice che forse è meglio andare da McDonalds
Salutatemi il gastroenterologo.

Note:

[1] Una Mia Vicina Di Casa, che nel '99 comprò un appartamento per 200 milioni di lire ed ora se l'è visto rivalutato a 300.000 Euro
[2] "Earth died screaming" da Bone Machine (1992)


mercoledì 30 maggio 2007

Calderone di pesce bentonico

Sia lode alla chef Claire Nouvian per aver finalmente svecchiato gli ambienti della cucina internazionale proponendo una variante eccezionalmente ricca e articolata dell'arcinota zuppa di pesce (o cacciucco o bouillabaisse o ciambotta che dir si voglia).

E allora: via i gamberetti, salutate gli scampi, dite addio al palombo e all'umile grongo! Al diavolo le teste di triglia e quelle di cefalo, i merluzzetti, le mazzancolle e il fetentissimo scorfano...

Vi basteranno, semplicemente, delle quantità variabili di:

Come base, a parte la salsa di pomodoro fresco, è necessario un discreto quantitativo di brodo primordiale (privo di glutammato e alghe azzurre, mi raccomando).

Nel pentolone ove avrete preparato il sugo, lasciate macerare gli ingredienti per un periodo compreso tra i tre e i cinque miliardi di anni, mescolando energicamente allo scadere di ogni era geologica.

Mon dieu: les jeux sont fait!

Se il vostro pisciaiuolo di fiducia non dovesse riconoscere 'a voce' alcuni degli ingredienti su menzionati, potete sempre pensare di indicarglieli nell'ottimo specchietto riepilogativo che trovate qui di seguito:


NdA: Nel caso in cui risultiate tra quei pochi sfortunati che non digeriscono la Winteria Telescopa, allora potete sostituirla con l'ottima (ed economica) Mertensia Ovum, senza per questo rovinare la fine palatalità del piatto.

Da preparare ascoltando: Fishbone - Give a Monkey a Brain And He'll Swear He's the Center of the Universe (1993)