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lunedì 18 giugno 2007

Sgombro coatto

Negli ultimi otto anni il prezzo della casa a Roma è per lo meno triplicato (fonte: UMVDC [1]).

Ora capisco perchè da giovane guardavo con simpatia e tenerezza a quelle garbate realtà milanesi - Roma non era ancora neppure un pensiero minuzzolo nella mia capa santa - di occupazione abusiva e pacifica quali il COA T28 in Via dei Transiti o il CSOA Leoncavallo e le sue infinite migrazioni.

Poi capita che uno legge gli annunci immobiliari dell'agenzia sotto casa (ma quale casa?) e allora si prospettano due (2!) sole possibilità:

  1. denunciare i titolari dell'agenzia presso l'Ente di Protezione della Lingua Italiana (terrazzatissimo? cieloterra? pluribalconato? Come gli viene!?!?!)
  2. denunciare i titolari dell'agenzia presso la Camera di Commercio (che fanno, lasciano ancora i prezzi in Lire? 595.000 per un 90mq in via Cardano: ci dev'essere un refuso da qualche parte, forse mancano due o tre zeri...)
  3. this option intentionally left blank
Ed è proprio riflettendo su tali temi, oltre che tornando col pensiero ad un mio vicino, moroso laureato (no, non era un fidanzato modello ma un pidocchio che non pagava la pigione manco se gli staccavano le unghie dei piedi a tenagliate) che mi si è presentata l'ispirazione per questa pietanza.

Al lettore sarà chiaro quanto prima il perchè del nome.

Non può sfuggire, com'è ovvio, l'ingrediente principale: lo sgombro, o come lo chiamano a Roma e dintorni, il maccarello.

Curioso come in ambito agroalimentare il genio italico abbia fatto propri alcuni termini anglosassoni, storpiandoli (in)consapevolmente e trasformandoli nelle caricature autarchiche di sé stessi: è così che il mackerel si trasforma in maccarello, la herring in aringa e lo stockfish in stoccafisso. Ma anche la beef steak in bistecca, per par condicio.

Poi si deridono gli emigranti che Broccolìno al posto di Brooklyn. Mah.

Fine dello sfogo (un grazie alla mia personale crema contro gli eczemi).

Lo sgombro (uno per commensale) è meglio procurarselo da un pescivendolo di fiducia se non si vuole fare la fine di quello chef francese cui asportarono d'urgenza parte dell'intestino a causa di un infezione da anisakis (mortacci!). Altri riferimenti qui, qui e qui.

In alternativa, si può eviscerare *bene* l'animale prima che un chirurgo sia costretto a fare lo stesso con noi.

Meglio ancora lasciare a riposo il simpatico pesciolino per
  • 96 ore a -15° C, oppure
  • 60 ore a -20° C, oppure
  • 12 ore a –30° C, oppure
  • 9 ore a -40° C
in modo da azzerare le funzioni vitali del fastidioso nematode (e non sto parlando di vostra suocera).

Ah, già, la cottura in forno risolve altrettanto bene il problema... :)

Ce l'avete il coriandolo? Bene: farciteci ciascuno sgombro - sventrato - unitamente ad uno spicchio d'aglio. Diciamo che un cucchiaino di coriandolo cadasgombro può andar bene. E anche un filo d'olio e un briciolo di sale grosso.

Avvolgete ciascun maccarello in un foglio d'alluminio e infornatelo per una ventina di minuti almeno: sarà la vostra esperienza pluriennale nel coitus interruptus a indicarvi il momento più opportuno per tirare fuori il pesce prima che sia troppo tardi.

Ora comincia il bello.

Ciascuno sgombro va lasciato raffreddare quindi - nell' ordine - spellato, spinato e sminuzzato grossolanamente, senza curarsi della presenza di eventuali semi di coriandolo rimasugli della cottura.

Se durante la spinatura doveste imbattervi in strane larve filiformi di circa 1 - 3 cm, tipo queste, accertatevi almeno che siano morte.

Indi bisogna depositare i pezzettoni di sgombro in una zuppiera, e infine aggiungere cipolle affettate a spicchi grossi, capperi sott'aceto, olive nere e succo di limone. Completa il tutto una pudica innaffiata di aceto di mele (perché sì) e un filo d'olio crudo.

Per contrapasso il composto va lasciato marinare in frigo per qualche ora e rimestato ogni tanto: se nel farlo vi scappa di assaggiare, peccato non è.

Come accompagnamento è d'uopo una salva di Dreher 66cl (ghiacciata): dopotutto, se lo sgombro dev'essere coatto è meglio che lo sia fino in fondo.

That's all, folks.

Il piatto è consigliato se:
  • siete in ritardo con l'affitto e avete a cena il vostro padrone di casa imbufalito. In tal caso non curatevi affatto della provenienza del pesce e del suo grado di cottura (anzi!) quindi approntate una scusa fantasiosa che vi permetta di sottrarvi all'obbligo di assaggiare il medesimo piatto senza apparire maleducati ("No, io non lo mangio, grazie! Proprio oggi mi è venuta la febbre di Marburg e, come può immaginare, ho lo stomaco un po' in subbuglio...").
  • amate Tom Waits e vi ha sempre affascinato il verso di quella sua canzone [2] in cui blatera "(...) it rained mackerel, it rained trout (...)": verosimilmente, quando la scrisse, il bardo di Pomona si trovava a passare sotto il balcone di un improvvido cuoco che si era cimentato senza successo in questa stessa ricetta.
  • digerite anche i sassi, ma avete voglia di qualcosa di più.
Da prepararsi ascoltando:
  • il vostro stomaco che brontola
  • il vostro sesto senso che vi dice che forse è meglio andare da McDonalds
Salutatemi il gastroenterologo.

Note:

[1] Una Mia Vicina Di Casa, che nel '99 comprò un appartamento per 200 milioni di lire ed ora se l'è visto rivalutato a 300.000 Euro
[2] "Earth died screaming" da Bone Machine (1992)


venerdì 8 giugno 2007

'bbrasciòla di cavallo al zùco

Foggia è una città ben strana.

A Foggia molte cose perdono il loro vero nome per acquisirne un altro che poi, per consuetudine, si sostituisce al primo nell'immaginario collettivo (e spesso ignaro) sino a diventare più vero del vero.

Ad esempio, da tempo immemore (cioè da quando io ho facoltà di ricordare) a Foggia esiste una Piazza Libanese. Che a me, già da régazzino, mi pareva un nome inusuale: quando mai s'è vista una piazza aggettivata? Libanese, poi.

E perchè non Etiope o Tagìka?

Ma quando la sentivo appellare così financo da due solide e concrete casalinghe quali mia madre e mia nonna materna, beh, allora mi rassegnavo ai miei dubbi adolescenziali.

Poi all'improvviso ho scoperto quali fossero gli altri significati della parola libanese, in seguito quale fosse l'attività clandestina per cui la piazza omonima era famosa, e quindi - finalmente! - il perchè di quei capannelli di 'ggiuv'n uagghiùn' [0] assiepati nottetempo in Parco Volontari della Pace.

Più che ingenuo sono duro di comprendonio, lo ammetto.

Esistono anche altri casi eclatanti di perdite d'identità anagrafica, riferite solitamente alla toponomastica degli esercizi commerciali.

Il chiosco La ghiacciaia, sebbene così registrato alla camera di commercio, in realtà non è mai esistito in quanto tale: il suo nome originario è da sempre soppiantato nella memoria dei foggiani dal più familiare 'a cantìn' d' P'ppùzz' [1], universalmente nota a causa dei tappi di birra Raffo incastrati dagli avventori con inusitata perizia nell'asfalto innanzi all'ingresso, e per i rùtt' [2], sgàrrùtt' [2bis] e quàtt' chitàmmùrt [2ter] che prorompono dagli avventori stessi ad ogni minima occasione, anche la più inutile.

Poco distante, nascosto in una viuzza a senso unico di fianco all'Accademia di Belle Arti e non molto lontano dalla vecchia questura, giace un altro esempio caratteristico di tali identità commerciali multiformi: la taverna / pizzeria La grotta azzurra, nota ai foggiani - e dunque al mondo intero - con l'affettuoso appellativo di 'u 'nz'vùs [3].

Ed è proprio dall'Inzivoso [4] che ho potuto riassaporare una delle massime espressioni di quel caratteristico piatto foggiano della domenica di festa che è, per l'appunto, la 'bbrasciòla di cavallo al zùco.

Neanche a farlo apposta, a Foggia la 'bbrasciòla (braciola) non è quello che sembra.

Uno dice "braciola!" a Milano, e si vede servire un bel pezzo di carne alta un dito, ancora attaccata all'osso e cotta alla brace (da cui il nome).

Uno dice "braciola!" a Roma, e uguale.

A Napoli, idem.

A Foggia no: a Foggia la braciola è l'involtino di carne cotta nel sugo. Tenuta insieme a volte da un doppio filo di cotone, a volte da stuzzicadenti o spiedini di metallo, e comunque farcita d'aglio, prezzemolo, formaggio e pepe. Presso i più nobbbili, anche di prosciutto cotto e omelette (la frittatina, certo!).

Per prepararla non occorre particolare perizia ma gli ingredienti giusti, quelli sì.

Nell'ordine:

  • agghij' (aglio)
  • ogghij' (olio)
  • sàrz' d'pùmmadòr' (salsa di pomodoro)
  • p'trùsìn' (prezzemolo)
  • p'cùrin' (formaggio saporito)
  • pèp' nìr' (pepe nero macinato)
  • carn' d'cavall' p'ì 'bbrasciòl' (fettine di carne di cavallo tagliate a medio spessore)
  • carna gràss' p'anzapurì 'u zùg' (carne meno pregiata, tipo maiale o muscolo, tagliata a pezzi grossi, utile per dare un fondo più robusto al sugo)
Parte dell'aglio va tritata insieme al prezzemolo, quindi mischiata al formaggio grattugiato ed al pepe e utilizzata per farcire le fettine di carne, disponendo il composto ad uno degli estremi della fettina, in modo che arrovogliando quest'ultima su sè stessa e cominciando proprio da tale estremo, la farcitura arrivi a trovarsi infine al centro della braciola.

Indi si procede alla chiusura dell'opera utilizzando il mezzo più consono (cotone, stuzzicadenti o spiedini). Mia nonna, per inciso, prediligeva il cotone. L'Inzivoso, invece, gli stuzzicadenti di legno, più facili da riciclare e quindi tendenzialmente meno onerosi.

Nel frattempo, in una pentola abbastanza alta, si sarà fatto soffriggere l'aglio in olio sufficientemente abbondante, onde aggiungere prima i pezzi di carne d'accompagnamento e quindi le braciole.

Non appena la carne comincia a lasciare tracce abbrustolite sul fondo della pentola, si abbassa la fiamma e si attende un minuto che la temperatura dell'olio sia scesa prima di versare la salsa di pomodoro: se quest'ultima è fatta in casa clandestinamente, tanto meglio.

Si ravviva quindi la fiamma, si sala il tutto e ci si aggiunge qualche gambo di prezzemolo tanto per gradire.

La cottura deve essere lunga e, viene da sé, la fiamma non troppo alta.

Quando il sugo raggiunge la consistenza del purè di patate, allora è indizio che la cottura è ultimata. Se si attacca un po' alla pentola, male non fa.

Le braciole vanno servite per prime, immerse in un tripudio di salsa, quindi la carne d'accompagnamento, se la vostra panza conserva ancora un qualche anfratto libero.

Anche perché per gli avventori de l'Inzivoso il piatto in questione non è mai la prima portata, ma spesso segue a ruota un'altra delle famose delicatessen della casa, ovvero la pizza a bordo alto farcito di ricotta e salsiccia (il bordo!).

Per molti esseri umani, l'accoppiata è letale.

Ormai sono anni che non vivo più in pianta stabile a Foggia. Quando ci torno, sporadicamente, sono sempre troppo impegnato a salutare amici e parenti - quei pochi - per potermi dedicare ad una sana devastazione gastrointestinale come quando ero fanciullo.

Voci preoccupate che hanno raggiunto noi foggiani emigrati all'estero ci dicono che 'u 'nz'vùs' sia chiuso da un po', a causa di problemi familiari riscontrati dal signor Vittorio (il titolare del locale nonchè dell'appellativo di Inzivoso) e non ancora risolti.

Alcuni, invece, sostengono che il locale sia stato chiuso dai NAS, che durante un'ispezione di controllo pare abbiano visto uscire dalla cucina una fila di verruche in ciàvatte.

Quale che sia la verità, si tratta comunque di una perdita incommensurabile per la gastronomia di un certo livello (il più basso).

Una prece.

Da preparare ascoltando:



Note del Traduttore:

[0] Scansafatiche
[1] "La cantina di Giuseppe"
[2] Rutti
[2bis] Rutti fragorosi
[2ter] Bestemmie e contumelie indirizzate ai familiari morti del destinatario
[3] "Il lurido"
[4] "Il lurido", secondo la dizione adottata dal foggiano verace che cerca inutilmente di parlare in itaGliano

mercoledì 23 maggio 2007

φέτα ε τσυκιηε

Questa sera si disputerà in quel di Atene la finale di cèmpsionlìg (pronunciata in accordo alle regole della fonetica galeazziana): ma questo blog non parla di arte pedatoria, né tampoco di calcio moderno.

Però bisogna constatare che non v'è occasione migliore di un evento di tale por[ct]ata, per decidersi a cucinare un piatto greco (ma ROTFL!) la cui esistenza mi è stata svelata da un bergamasco biondo y tinto, presunto bisex e fan di Madonna (via quel 'presunto'!), con cui coabitavo a Milano, in BözenStraße 1.

In verità in verità vi dico che il tipo (ciao Giulio!) era solito preparare la pietanza in un minuscolo microonde (bontà sua): nel ripetermi qui a Roma, in assenza del suddetto microonde, ho scoperto che un comune forno a gas è più che sufficiente, financo quella fetecchia che ho in casa.

Ordunque, come si capisce facilmente dal titolo del post, per incominciare l'avventura abbisognate di:

  1. τσυκιηε
  2. φέτα
  3. un forno
  4. una teglia
mentre i più fantasiosi di voi possono optare per l'aggiunta di una spezia a scelta tra:
  • pepe nero
  • noce moscata
Le τσυκιηε vanno lavate, circoncise in modo da eliminare il prepuzio e il postpuzio alle due estremità, e tagliate in pezzi piccoli, di mezzo centimetro di spessore e dalla forma di quarto di circonferenza.

Se la trigonometria non fa per voi, beh, allora tagliatele come più vi aggrada, anche a forma di patatine playstation™, nel qual caso potreste trovare preferibile usare un bulino o un succhiello anzichè un comune machete da cucina.

Avete affettato le τσυκιηε? Bene, mettetele temporaneamente da parte (detto con voce alla Lucarelli e con le mani congiunte a formare l'immagine di un ragnetto che cammina su uno specchio).

Procedete in modo analogo con la φέτα, ovviamente senza lavarla, pur sapendo che non è pastorizzata (a meno che non siate degli sporchi igienisti: nel quel caso, FUORI DI QUI!).

Sminuzzatela in cubetti della dimensione di una zolletta di zucchero e unitela alle τσυκιηε preparate in precedenza.

Ammischiate il tutto come streghe che rimestano il calderone del sabba, indi depositate il risultato nella teglia che avrete poi cura di informare del fatto che state per infornarla.

Paura, eh? (sempre con la voce del Lucarelli di cui sopra)

Al solito, non preoccupatevi troppo della temperatura del forno, a meno che ad un certo punto non sentiate provenire dalla vostra cucina uno strano odore di plasma gassoso.

Ora, forse non tutti sanno che (cfr. "La Settimana Enigmistica") la φέτα ha un punto di fusione prossimo a quello dell'acciaio temperato misto all'amianto: a tal proposito si pensi che i pompieri di Θεσσαλονίκη sono soliti ungersi il corpo con essa prima di addentrarsi nel ventre degli edifici in fiamme (con il risultato che i pompieri si ustionano lo stesso, mentre gli inquilini rimasti intrappolati trovano il coraggio di fuggire via all'istante a causa del fetore e non devono essere portati in salvo singolarmente).

Perciò, non vi aspettate che la φέτα si sciolga per giudicare finalmente ultimata la cottura: diciamo che la scomparsa delle τσυκιηε - sostituite da un composto nerastro simile alla grafite - è indizio che siete andati un tantinello oltre.

Ovviamente, dovete avere la pazienza e la perseveranza di rimestare ogni tanto l'amalgama con una cucchiara di legno.

Potete ritenervi soddisfatti quando la φέτα si è ben rosolata sino a divenire superficialmente arancione (anche se non ripete un mantra Hare Krishna, va bene lo stesso) e le τσυκιηε sono finalmente rattrappite senza essersi disidratate.

Estraete la teglia dal forno tramite una pinza da fonderia e ricoprite l'ammasso caustico con una delle due spezie elencate un po' più su.

Eccheqquà!

Avrete notato l'assenza di sale aggiunto: ebbene, così come dall'unione tra quel mostro di Klaus Kinski e Ruth Brigitte Tocki (il cui aspetto ignoro, ma non faccio fatica ad accomunarla ad un angelo) è venuta fuori quella topona di Nastassja, anche dalla commistione di un alimento insipido, quali sono le τσυκιηε, e di un alimento sapidissimo qual è la φέτα, può venir fuori qualcosa di splendidamente saporito.

Se proprio non avete della retsina potete berci sopra un Corvo bianco (ma badate bene che sia freddo, eh!). In alternativa, anche un rosso corposo - che non costi meno di due euro e mezzo a bottiglia - si presta bene allo scopo.

"That win the best!", come direbbe il poeta.

Da preparare ascoltando: Aphrodite's Child - "Tribulation" - dall'album "666" (1972).

NdIO: non sapete cos'è la φέτα né tantomeno cosa sono le τσυκιηε? Un buon motivo per pentirvi di non aver fatto il classico (mica come me che ho fatto lo scientifico) :)

mercoledì 16 maggio 2007

Sciapò!

C'è chi i funghi li coltiva, chi li raccoglie nei boschi, chi li compra al mercato e chi li fa crescere con noncuranza nel proprio frigorifero.

Non so voi, ma io appartengo all'ultima categoria, come conferma il fatto che il cattura odori che ospito nel frigidaire vi giace stoico sin dal remoto Luglio 2004, in barba alla sua dichiarata durata semestrale.

Semmai vi ritrovaste degli sciampignòn abbastanza grandi (non sto qui a questionare sulla loro provenienza e poi io mi trovo bene anche con gli agarici bisporosi) potreste avere la malsana idea di sbarazzarvene come segue.

Dopo averli lavati, ripuliti della terra e della pellecchia che hanno in cima, scappellateli (dialettale) e tranciate la parte finale del gambo, quella che è di solito a contatto col letame, anche se non siede in parlamento.

Nel frattempo, pìjate un bel pezzo di guanciale (o di materasso, se preferite) - non piccante - e ricavatene tanti pezzi quanti sono le cappelle di cui sopra.

Essendo fungi, dette cappelle dovranno per l'appunto fungere da contenitori per il guanciale, per cui badate a che i pezzi che avete tagliato dal salume non siano né troppo grandi né troppo piccoli per tale scopo.

Farcite ogni cappella con un pezzo di guanciale (orsù! sbrigatevi, che il tempo e tiranno e il pupo piange...)

Contemporaneamente (va bene anche in una dimensione parallela, se ci riuscite) sminuzzate i gambi e saltateli in padella per dieci minuti, a fuoco basso, con aglio, olio (poco!), e una stilla di concentrato di pomodoro, aggiungendo del tamari verso metà cottura.

Se siete tamarri potete pensare di aggiungere all'intruglio anche del prosciutto cotto sminuzzato, che dà al preparato un tocco decisamente zen.

Occhio che il tamari è SALATO, ergo non aggiungete sale...

Amalgamate spesso durante la cottura, assaggiando di tanto in tanto giusto per assicurarvi che i funghi utilizzati siano davvero sciampignòn e non amanite falloidi (se avete questo dubbio, in verità, è meglio che ad assaggiare sia il gatto o la suocera in visita).

Preparato il preparato, usatelo per ricoprire il contenuto delle cappelle (come sopra) in modo da riempire gli eventuali interstizi tra il guanciale e il resto, laddove - di solito - si annida il pigiama o l'uomo nero.

Infornate e informatevi ogni tanto sullo stato di cottura.

Quando i funghi si sono un po'putrefatti e hanno scolato acqua & tamari, estraeteli dal forno con dei guanti da saldatore, quindi ricopriteli con pepe nero macinato fresco e prezzemolo tritato.

Magnateveli alla facciaccia mia, ed affrettatevi a chiamare il micologo al primo accenno di vomito fosforescente: nel caso, il sintomo descritto può essere dovuto alla scarsa qualità del passito di Pantelleria con il quale li avrete accompagnati (Veronelli dei miei stivali!)

Per discutere di eventuali allucinazioni e stati sciamanici contattate pure Carlos Castaneda, se ci riuscite (un piccolo aiutino lo trovate qui).

Il piatto è multiforme, nel senso che a seconda della quantità pro-capite di cappelle (no pun intended) può fungere (no pun intended - reprise) sia da secondo che da contorno: ai postumi l'ardua sentenza.

Da preparare ascoltando: Bardo Pond - Amanita (1996)

A.M.E.N. (Acqua Minerale Effervescente Naturale)

lunedì 7 maggio 2007

MyChickenTandoori (wannabe)

Allora, come s'è capito sin qua, mi piace molto sperimentare con quel poco di cui solitamente dispongo nel frigo, e fin ora mi è sempre andata bene, nel senso che almeno un pasto (commestibile) al giorno sono riuscito a garantirmelo, da che io ricordi.

Poichè mi picco - coi miei conoscenti - di essere bravo a replicare a casa piatti assaggiati nei luoghi più improbabili (senza chiedere la ricetta), mi sono cimentato in questa replica del pollo tandoori non potendo disporre - però - di:

  • yogurt
  • pollo
  • masala (& massullo, ma questa la capiscono in pochi, soprattutto se hanno vaghi ricordi di Los Angeles '84)
  • le restanti spezie
  • pomodori
  • forno tandoor
In pratica, mi sono ritrovato con:
  • petto di tacchino (non a fette)
  • cinque o sei limoni
  • paprika come fosse coca nel bagno dell'Hollywood
  • zenzero in polvere (almeno questo, eccheccazzo!)
  • forno a gas
e pervaso dallo spirito del dio Ganesh ho proceduto in questo modo.
  1. Ho spremuto TUTTI i limoni con uno spremiagrumi che filtrasse i semi e la pellecchia.
  2. Ho aggiunto un cucchiaio grande di polvere di zenzero alla limonata.
  3. L'ho versata in una ciotola a coppa grande.
  4. Vi ci ho fatto marinare il petto di tacchino tagliato a bocconcini per due / tre ore (in frigo).
Poidichè, ho steso la paprika (dolce) in un piatto grande e vi ho "impanato" (si può dire "impanato" parlando di paprika? Vabbè, diciamo impaprikato) i bocconcini di tacchino.

Li ho disposti in una cazzarola, separati l'uno dagli altri.

Ho infornato a 15.000 °C per 0,3 femtosecondi.

Qualora non si disponesse di un timer da cucina con la risoluzione dei decimi di femtosecondo si può optare per una cottura a spanne, chè l'importante e che il tacchino non si asciughi come le braccia della R.L. Montalcini. Ah, occhio a rigirare ogni tanto i bocconcini!

Se vi avanza paprika nel piatto & qualche ettolitro di brodaglia (come potreste chiamare altresì il misto di limone, succhi proteici del tacchino e zenzero da discount?), mescolateli e aggiungete il risultato nella teglia a metà cottura, in modo da dare un minimo di fondo al preparato.

Il sale va rigorosamente aggiunto dopo aver tirato fuori la teglia dall'altoforno.

Certo, una spruzzata di prezzemolo fresco non avrebbe fatto male, se solo l'avessi avuto.

Buono - in accoppiata - un bel rapitalà ghiacciato. Ma anche una brocca d'acqua fresca di sorgente (che fa molto ayurveda) è la morte sua.

Alla fine Ganesh m'ha sputato in un occhio con la sua proboscide (quella di sopra, maliziosi!).

Poi, però, il cornutazzo s'è sbafato tutto.